“Se populismo è ascoltare i bisogni della gente, allora lo rivendichiamo”
Ascoltando il vivace confronto d’apertura nell’Agorà di ThinkMilano, una settimana (fino a martedì 12) di incontro con la tecnologia come mai era stato fatto in Italia, mi sono tornate in mente le parole pronunciate dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel suo primo discorso al Senato. Che cosa c’azzeccano? Il neopremier ha cercato di stemperare la carica (giustamente) negativa di una parola violentemente brandita durante la campagna elettorale e nel travaglio postelettorale, riproponendola di fatto come alternativa a “marketing politico”. E in genere a marketing: partiamo dalle person e dai need, si dice nel Design Thinking adesso…
Populismo, quindi…Vista l’efficace carica dialettica del termine, chi si occupa di tecnologia e dintorni dovrebbe forse cominciare a rivendicare un (sano) “populismo dell’innovazione”. E credo che, in qualche modo, di questo si sia parlato tra i manager dell’IBM, illustri e bravi giornalisti ed altri ospiti di altissimo livello, senza ovviamente chiamarlo così (mi assumo quindi la responsabilità di una sintesi creativa e proattiva). Qui comunque si può rivedere l’Agorà del 5 giugno: lo consiglio perché è densa di spunti e di stimolanti punti di vista.
L’INNOVAZIONE NON È PER POCHI
“L’innovazione non deve andare a beneficio di pochi. L’innovazione può fare di tutto, ma va governata. E le imprese devono spingere le istituzioni a ragionare su questi temi”, dice in diversi modi e toni il presidente e amministratore delegato di IBM Italia Enrico Cereda. È per molti versi l’inizio di un programma di marketing, nel senso più nobile del termine, su un concetto e per un mondo che finora il marketing lo ha applicato ai prodotti (o al posizionamento) ma raramente alle visioni. In questo senso ThinkTank marca una svolta sulla quale ragionare: certo al Pavillon di piazza Gae Aulenti ci sono i prodotti, le soluzioni e i software ma si sentono anche la volontà e lo sforzo di trovare e valorizzare la profondità dell’innovazione e delle tecnologie, andando oltre la dimensione tecnico-economica per coglierne quella sociale. Un impegno rilevante soprattutto se viene da un compagnia altamente hitech come IBM. E anche questo non è senza significato.
LA DIMENSIONE SOCIALE DELL’INNOVAZIONE
Che cosa c’è nella dimensione sociale dell’innovazione? Ci sono gli ingredienti fondamentali di una comunità. C’è la quotidianità dei cittadini che si esprime nelle città e nei loro diversi livelli (per esempio, si può e si deve ragionare su quello che è possibile/necessario fare per le periferie grazie anche alle tecnologie e all’innovazione: è stato il tema di un intenso workshop sviluppato in collaborazione con l’Università Bicocca e con la metodologia del design thinking così come viene fatto su altri temi e con altri partner), c’è il lavoro ( “In Italia mancano 150mila profili nel digitale, nell’intelligenza artificiale”, ha ricordato Cereda), che vuol dire anche la cultura di chi gestisce le aziende. C’è poi la sostenibilità ambientale e c’è infine, last but not least, il rapporto con la politica e con le istituzioni, perché chi governa non ha solo la responsabilità di gestire la cosa pubblica ma anche quella di indicare la via soprattutto a chi non ha ancora compresa quanto possa essere importante per il suo futuro. “L’attenzione della politica è fondamentale non solo per le scelte che ci sono da fare ma perché accende l’attenzione sull’innovazione, la fa entrare nell’agenda quotidiana dei media e quindi finisce per creare cultura, che è quel che serve per poi poter fare le cose”, sostiene da tempo Andrea Rangone, CEO di Digital360. E nella sfera sociale dell’innovazione non può mancare l’etica, tanto è vero che al confronto in Agorà è stato chiamato un filosofo, Luciano Floridi, docente a Cambridge, uno dei premiati con i ThinkerAwards. “Ci sono momenti in cui l’etica è più necessaria di altri e questo è uno di quelli”, dice e pensa all’Intelligenza Artificiale ma non solo.
EVVIVA IL “POPULISMO DIGITALE”
“Non ho sentito parlare di sviluppo e di innovazione nei discorsi alla Camera e al Senato del Presidente del Consiglio e mi spiace perché questa è la cifra di Milano”, ha detto il sindaco Giuseppe Sala nell’Agorà iniziale di ThinkMilano. Ha ragione ma conviene a questo punto domandarsi perché. Dipende certo dalla cultura di nuovi leader che sembrano più preoccupati di sanare i torti (reali o no poco importa) che non di costruire opportunità, di rivalersi sul passato piuttosto che preoccuparsi del futuro ma non dimentichiamo che, se sono arrivati lì, è perché sono espressione di un sentimento diffuso verso la tecnologia che è di futilità per un verso (ma a che cosa serve davvero?) e di preoccupazione dall’altro (mi porta via il lavoro…). A questo punto le elite dell’innovazione, che esistono anche in Italia, che lavorano da tempo e stanno lavorando ancora ma forse troppo rivolte verso se stesse, dovrebbero rendersi conto che arriva il momento in cui ogni cambiamento richiede consenso, che la trasformazione digitale non si può imporre per evidenza tecnologica, che l’innovazione deve essere per e non più soltanto contro. Il consenso di solito si ottiene con una miscela senza ricetta di leadership (e quindi di visione) e di marketing (e quindi di comunicazione). Entrambi gli ingredienti richiedono la capacità di “ascoltare la gente”. Che è uno slogan semplicisticamente populista, d’accordo, ma sul quale dovrebbe pensare Milano e l’Italia tutta. ThinkMilano e ThinkItalia.