L’emergenza coronavirus ha portato alla luce tanti problemi, tante disfunzioni del nostro sistema e del nostro vivere comune. Ma ha anche costretto e sta costringendo ogni giorno ognuno di noi, in qualche misura, a reinventarsi. Questo è tanto più vero per gli insegnanti, gruppo di cui io faccio parte, che si trovano in questi giorni davanti alla svolta più radicale della loro carriera.
Qualsiasi docente, in Italia, è infatti abituato – volente o nolente – alla ripetizione. Ripete gli stessi argomenti ai suoi studenti per anni, e se anche gli studenti cambiano e le loro modalità di apprendimento mutano, gli argomenti rimangono più o meno sempre gli stessi. Un insegnante di lettere spiegherà sempre Leopardi, uno di matematica sempre le parabole. Certo, gli insegnanti più motivati cercano continuamente di innovare e portare ogni anno uno spunto nuovo all’interno delle loro lezioni, ma la ripetizione è un tratto ineliminabile del nostro mestiere.
Ebbene, il coronavirus è riuscito per la prima volta a cambiare gli insegnanti delle scuole italiane. Ci hanno provato ministri, dirigenti scolastici, perfino capi del governo, sempre senza alcun successo. Ci sta riuscendo, pare, un virus. Perché quella che abbiamo davanti, tra titubanze e inciampi, è sicuramente la prima grande rivoluzione della scuola da molti decenni a questa parte.
Coronavirus e scuole: i cambiamenti finora
A causa del coronavirus in tutta Italia, nelle scuole, migliaia e migliaia di docenti in questi giorni si stanno dando da fare per cambiare completamente il loro modo di insegnare. In primo luogo, hanno preso in mano un computer, cosa che magari già facevano, ma più che altro per preparare i compiti in classe o sbrigare la corrispondenza tra colleghi. Ora i computer vengono usati per cercare di mettersi in contatto con gli studenti, che si trovano isolati nelle loro case, magari neppure troppo distanti in linea d’aria, ma distantissimi a causa del cordone sanitario.
E non sono solo i computer ad essere utilizzati. Noi insegnanti stiamo cominciando a scoprire che i nostri smartphone hanno la possibilità di registrare video ed effettuare videochat, o che i tablet possono essere usati per correggere gli elaborati. Alcuni si riprendono mentre scrivono su un foglio, altri mentre tengono una lezione al muro, altri ancora tirano giù dal letto i ragazzi alle 8 del mattino per trovarsi su Skype a correggere gli esercizi assegnati.
Perfino i social network sono stati improvvisamente “reinterpretati” e utilizzati in modo nuovo. Prima di tutto per rintracciare gli studenti, perché all’inizio, con le scuole completamente chiuse, gli insegnanti sono andati a scovare i genitori dei loro bambini o i rappresentanti di classe nelle scuole superiori proprio sui social, su Instagram o su Facebook. Poi da lì sono passati altrove: su YouTube oppure su applicativi specifici per la scuola, su Microsoft Teams o su Google Meet, sui registri scolastici online e su WhatsApp.
Io, per riportare una piccola esperienza personale, ho iniziato fin da subito a caricare delle video-spiegazioni su YouTube, portando avanti il programma di storia e di filosofia. Ho spiegato Kant ed Heidegger, la Seconda guerra mondiale e Filippo II, Aristotele e Cavour, cercando di inserire, all’interno dei video, anche schemi riassuntivi, esempi, ricapitolazioni.
I ragazzi si guardano quei video di mattina o di sera, in “differita”, prendono appunti e poi mi fanno domande sul gruppo Slack che abbiamo creato in parallelo, chiedendo dei chiarimenti sui punti più ostici. E io con le statistiche di YouTube riesco anche a monitorare quanto tempo passano davanti al video e se li guardano tutti o solo una parte della classe. Sui gruppi Slack poi discutiamo anche di quello che sta avvenendo in Italia e nel mondo: alcune classi mi chiedono informazioni, pareri, per sapere anche come comportarsi durante quest’esperienza che sta spiazzando un po’ tutti.
Abbiamo già in programma una serie di videochat per discutere di questo ma anche per programmare le verifiche e le interrogazioni, che probabilmente inizieremo a fare con Skype o con Google Meet nei prossimi giorni. E questo perché le video-lezioni non bastano, c’è bisogno di sentire anche un ritorno, di sentire il feedback dei ragazzi. Un po’ alla volta ci riusciamo; con difficoltà ma ci riusciamo. E in qualche modo la scuola va avanti anche così, anche a distanza.
Certo, il passaggio non è stato affatto indolore. Alcuni insegnanti delle nostre scuole, anche in tempi di coronavirus, non ne vogliono sapere di fare tutte queste cose. Altri non si sentono adeguati al compito, non pensano di esserne in grado, anche se ci stanno provando, magari con l’aiuto dei tecnici informatici delle loro scuole o dei colleghi (o, più spesso, dei loro figli, magari studenti universitari costretti anche loro a casa). Altri ancora ci provano più intensamente, ma si devono scontrare col fatto che non tutti gli studenti hanno una connessione wifi a casa e soprattutto che non tutti hanno il computer, e anche quando ce l’hanno lo devono condividere col fratello, col papà, con la mamma. Senza contare che in queste mattine in cui tutti si collegavano agli applicativi scolastici, questi tendevano a collassare sotto al peso dei troppi utenti.
Oltre i confini
Insomma, in questa emergenza dovuta al coronavirus, c’è ancora molto da fare per le scuole e moltissime cose che non funzionano, ma bisogna anche sottolineare che grazie a questo grande sforzo si sono scavalcati i confini delle zone rosse, prima che tutta Italia diventasse in un certo senso una zona rossa. Che professori al di qua del “confine” riuscivano a fare lezione a ragazzi al di là del confine stesso, grazie alla forza di internet e soprattutto alla forza di volontà.
E, diciamocelo chiaramente, senza il coronavirus tutto questo non sarebbe mai avvenuto. Da decenni a scuola si fanno corsi sull’innovazione digitale, sull’e-learning e sulla didattica innovativa, corsi che moltissimi frequentano ma che moltissimi poi trovano in realtà abbastanza inutili, all’atto pratico. Il digitale, finora, è sempre stata una bella cosa da studiare, adatta magari a qualche prof smanettone e poco altro, ma non qualcosa da implementare realmente. Ora, di colpo, è diventato l’unico modo per insegnare, il nostro gesso e la nostra lavagna.
Da quest’esperienza così straniante potrà, forse, uscirne anche qualcosa di buono, assieme a tutte queste difficoltà e limitazioni. Potrà, si spera, formarsi un nuovo rapporto tra docenti e studenti, meno distaccato, più attento prima di tutto a comunicare e poi, solo dopo, in seconda istanza, a valutare; potrà svecchiarsi il modo in cui ci poniamo davanti ai ragazzi; potremo anche imparare ad usare strumenti nuovi, e cominciare a farlo diventare parte della nostra didattica quotidiana, anche dopo la fine dell’emergenza.
Tutto è possibile, anche se forse non ancora probabile. Solo il tempo ci dirà se lo sforzo è servito e quanto rimarrà in noi e nei nostri ragazzi. Ma è uno sforzo che bisogna fare e che bene o male stiamo facendo.