“Mentre seguivo le cronache della Cop28, ancora una volta ho visto scarso approfondimento su quello che potrebbe essere davvero un nuovo continente: l’Artico.”
Leonardo Parigi, giornalista pubblicista, collabori con testate nazionali sui temi di logistica, trasporti, portualità e politica internazionale, tu sei il fondatore di Osservatorio Artico. Di che si tratta?
“Osservatorio Artico è dal 2018 la prima rivista italiana digitale focalizzata sull’Artico e sul cambiamento in atto nella regione polare. Abbiamo oltre 30 collaboratori e una rete di partner istituzionali di primo piano, in Italia siamo il principale strumento di divulgazione online e non solo sul tema. Ci occupiamo di economia, logistica, ma anche di società, cultura e geopolitica, con particolare attenzione agli aspetti di sicurezza”
Ciò che accade nell’Artico non resta nell’Artico è una frase che si sente ripetere nel contesto della ricerca sul cambiamento climatico nella regione artica, e che ha oggi echi ben più ampi, anche per quel che riguarda la politica internazionale. Per questo tu sostieni che l’Artico è l’ultimo mondo da scoprire?
“L’Artico è una regione sconfinata, generalmente ricondotta a tutto ciò che supera a settentrione il 66° parallelo Nord. Un’area immensa, nascosta all’umanità per millenni, dove le condizioni climatiche sono invivibili e tutto è ghiaccio”
Beh, oramai non proprio tutto ghiaccio, a quanto sembra dalle cronache di questi ultimi anni. I più recenti rilevamenti confermano che l’aumento della temperatura in Artico è quasi tre volte rispetto alla media mondiale, con alcune regioni che presentano un aumento fino a 2.7°C ogni dieci anni, corrispondente addirittura a 5-7 volte il tasso di crescita globale della temperatura…
“Non è inusuale che nel periodo estivo vi siano temperature mediterranee, sopra i 25 gradi, anche nella Norvegia settentrionale, o addirittura alle Isole Svalbard. Consideriamo però il grande tema del permafrost…”
Permafrost?
“Sembra una questione per addetti ai lavori, ma purtroppo non lo è. Semplificando molto, il 25% di tutte le terre emerse dell’emisfero boreale, è costituito da permafrost, che si estende in prevalenza nelle regioni artiche russe, finlandesi, canadesi, groenlandesi e dell’Alaska. Terreno congelato da almeno 10.000 anni che si sta squagliando e si trasforma in fango. Non è un problema solo di carattere tecnico, perché rischia di far collassare infrastrutture, strade, gasdotti e città intere…
Ma…
“…Ma è un grosso problema ambientale, perché all’interno di questo terreno ghiacciato risiedono carcasse di animali, virus e batteri che non hanno perso il loro carico patogeno e che tornano “in vita”. E, soprattutto, enormi quantità di metano, un gas serra molto più climalterante dell’anidride carbonica. Significa che, se dovesse sciogliersi e rilasciare tutto il metano al suo interno, vedremmo un innalzamento delle temperature davvero devastante per il mondo”.
Una ipotesi davvero “incoraggiante”. Oltre al dato climatico, lo scioglimento dei ghiacci cambia però anche gli assetti di geopolitica e di relazione tra gli Stati. Anche per questo in realtà l’Artico è una delle zone in più rapido cambiamento al mondo…
“L’Artico è il “giardino di casa” di Mosca, sia per geografia che per cultura. Dall’Artico la Russia estrae oltre il 14% del suo PIL, tramite le immense riserve di idrocarburi già a frutto oltre le sue coste. Da oltre 20 anni Putin investe miliardi nella ristrutturazione delle caserme e degli insediamenti lì posizionati, ha allestito la grande e potente Flotta del Nord e progettato decine di nuove infrastrutture di trasporto e collegamento”.
Da febbraio 2022, dopo l’inizio da parte della Russia della guerra contro l’Ucraina, la situazione sarà ulteriormente cambiata…
“Fino al febbraio dello scorso anno, gli investimenti russi in infrastrutture artiche venivano considerati complementari allo sviluppo commerciale globale, con buona pace dei membri della NATO in Scandinavia.”.
Perché?
“La rotta marittima di Nord-Est, che passa a Nord dei 24.000 chilometri di costa artica della Russia, è in grado di far risparmiare una media di 12 giorni di navigazione alle navi che partono dalla Cina con direzione Europa. Un bel vantaggio, economico e politico”
E oggi?
“Oggi tutte le navi che arrivano dal Far East non possono che passare attraverso dei colli di bottiglia (“Choke Points”) controllati dagli Stati Uniti o dagli alleati dell’Occidente. Dallo Stretto di Malacca al Canale di Suez, non ci sono alternative. E quindi, diversi Paesi ipotizzano uno spostamento a Nord, dove l’unico Paese a chiedere il diritto di passaggio sarebbe il partner russo…”
Una prospettiva della quale tenere conto. Tuttavia, pur con lo scioglimento dei ghiacci, le condizioni climatiche immagino non siano sempre favorevoli…
“Questa rotta marittima di Nord-Est (Northern Sea Route) è in effetti una realtà molto complessa. Le condizioni meteo-marine sono estremamente difficili anche da prevedere nel dettaglio, e l’inverno resta off-limits anche per la flotta di navi ice-class di Mosca, che vanta la più vasta flotta mondiale di rompighiaccio, tra scafi mercantili e militari. Eppure qualcosa sta cambiando, e molto rapidamente.”
In che senso?
“Finora Europa e Nord America erano relativamente protetti sul fronte settentrionale. Le condizioni climatiche limitavano l’interazione fra Flotta del Nord e Flotta del Pacifico e solo i sottomarini nucleari si muovevano liberamente potendo passare sotto la calotta artica. Ora, invece, anche la superficie del mare può essere più stabilmente utilizzata, una volta finito l’inverno”.
Passiamo a situazioni più serene. Immagino che le mutate condizioni climatiche consentano in prospettiva di sfruttare di più anche le ricchezze energetiche e minerarie di questo territorio.
“Inevitabilmente sì, anche perché lo scioglimento del ghiaccio marino artico, offre enormi possibilità di sfruttamento ai Paesi artici. Pensiamo solamente alle terre rare, fondamentali per la transizione ecologica ed energetica: la Groenlandia è un’area ricchissima di questi elementi, e gli sviluppi minerari sono al centro della politica interna ed estera di Nuuk. Un tema cruciale, molto più dello sfruttamento degli idrocarburi offshore.”
In questo scenario, l’Italia, in tutto questo, come si inserisce? Oppure siamo troppo lontani?
“Roma è “Membro Osservatore” dell’Arctic Council – il principale foro internazionale sul tema artico – dal 2013, su spinta dell’ex ministro degli esteri Franco Frattini, recentemente scomparso. Ma il nostro Paese è nell’area grazie alla ricerca scientifica e agli investimenti privati, visto che ENI (e la sua controllata Vår Energi) estraggono dall’area notevoli quantità di gas e petrolio. La Marina Militare, tramite l’Istituto Idrografico della Marina di Genova, ogni anno manda nel mare compreso tra le Svalbard e la Groenlandia la missione “High North”, sulla Nave Alliance”.
Una missione militare?
“Una missione di carattere scientifico, della durata di due settimane circa, che dal 2017 mette in acqua strumentazioni e ricerche all’avanguardia per capire di più di questo mare, di cui non esistono carte e batimetrie.”
Oltre a questa missione per la scienza, il nostro Paese come guarda all’Artico?
“L’Italia ha pubblicato una strategia per l’Artico nel 2016 e si appresta a rivedere questo documento nei prossimi mesi. Abbiamo una stazione artica “Dirigibile Italia” a Ny Ålesund, gestita dal CNR. Alla Farnesina esiste un Inviato Speciale per l’Artico, il Ministro Carmine Robustelli, che presiede anche il Tavolo Artico: un network leggero che racchiude tutte le principali realtà private e pubbliche del nostro Paese che lavorano sul tema e nella regione. Sono anche molte le realtà industriali e tecnologiche che stanno lavorando nella regione, e che rappresentano anche uno spaccato di alta gamma delle competenze nazionali. ENI e Saipem gestiscono piattaforme e impianti di alta tecnologia per la ricerca degli idrocarburi. Telespazio e E-geos realtà satellitari che supportano la ricerca scientifica e sulla sicurezza della navigazione grazie alla produzione di immagini di alta qualità. E ancora: Fincantieri e Leonardo sulla cantieristica navale e sulla dotazione di elicotteri per la difesa e le attività di Search&Rescue in Canada e Norvegia.”
Consolante e di buon auspicio per il futuro…
“Sono solo alcuni degli aspetti su cui anche noi lavoriamo, per seguire da vicino l’avanzamento di innovazione nella regione. Per esempio, Danimarca e Norvegia stanno investendo molto sulla tecnologia Carbon Capture & Storage, ovvero la capacità di poter “filtrare” l’aria, andando a mineralizzare l’anidride carbonica per poi pomparla offshore in depositi di gas naturale ormai esausti”.
Il 30 novembre avete realizzato a Galata, il Museo del Mare di Genova, la terza edizione del festival di Osservatorio Artico, “Italia chiama Artico”, tra geopolitica, economia e ambiente. Come è andata? Quali temi avete approfondito?
“Il festival, promosso in partnership con IAI – Istituto Affari Internazionali, è diventato un appuntamento fisso per Genova. Io abito e lavoro qui, penso che la città abbia connessioni anche idealmente storiche con questo tema, se vediamo l’Artico come una porzione di pianeta davvero inesplorata e misteriosa. Se torniamo indietro al 1492, non è poi così difficile vedere il collegamento con la scoperta dell’America per opera di Colombo, che qui è nato e cresciuto. Oltre a tutto ciò, il festival sta diventando un appuntamento fisso di carattere nazionale, e siamo davvero entusiasti di aver portato a un vasto pubblico la voce di grandi esperti, politici, diplomatici e stakeholder. È importante parlare di Artico sempre di più”.
Fatto.