L'ANALISI

Confindustria digitale non c’è più: il segnale forte dell’incertezza italiana sul digitale

L’Italia ha uno slancio positivo sull’intelligenza artificiale ma non sembra aver colto completamente il senso della trasformazione digitale. Come dimostra la difficoltà di gestire la rappresentanza dell’economia digitale, che ha portato allo scioglimento di Confindustria Digitale. Che cosa è accaduto? Perché adesso?

Pubblicato il 06 Nov 2023

Italia digitale

Confindustria Digitale non c’è più. Che cosa ci sarà al suo posto non è ancora dato sapere. La riorganizzazione della rappresentanza dell’economia digitale nella più grande associazione imprenditoriale italiana richiederà tempo. E la vicenda interna di viale dell’Astronomia diventa il simbolo dell’Italia che lavora e sa farlo bene ma come l’ha sempre fatto, l’Italia che si innamora delle tecnologie ma fatica a usarle per cambiare davvero, l’Italia metà dovere e metà fortuna in mercati sempre più globali, competitivi e veloci.

Dopo l’ordine esecutivo del presidente Joe Biden e il summit voluto dal premier britannico Rishi Sunak a Bletchley Park, sulla scacchiera geopolitica è diventata evidente la partita dell’intelligenza artificiale (qui si può leggere il documento sottoscritto dai Paesi partecipanti). Lo slancio dell’attuale leadership politica italiana, per molti versi ammirevole, rischia però di apparire una fuga in avanti perché sarà difficile avere un ruolo in questo confronto senza una chiara comprensione delle tecnologie digitali e delle sue applicazioni, nella vita pubblica come nel business.

Annunci ed enunciati sono utili se poi si scaricano sul sistema Paese, con i fatti quotidiani, con quella cultura che ha permesso ad aziende nate qualche decennio fa di superare, sul mercato e in termini di valore, imprese con storie magari centenarie, e quindi quella legacy – legame con il passato che finisce per frenare la spinta verso il futuro.

Il ritardo italiano e lo scioglimento di Confindustria Digitale

Se c’è ancora bisogno di distinguere, separare, comprendere il digitale, tanto è vero che siamo ancora sotto la media europea di digitalizzazione (nel DESI cresciamo, è vero, ma restiamo ancora dietro Spagna, Austria e Lituania…). Se la prima banca italiana del Paese ha affrontato il lancio di un importante progetto digitale come Isybank preoccupandosi delle proprie esigenze e assai meno di quelle di quelle dei clienti, finendo per attirare l’attenzione dell’Antitrust. Se persino Confindustria arriva al punto di sciogliere la sua federazione dedicata al digitale, allora vuol dire che in Italia abbiamo ancora qualche problema con questa nuova dimensione del business e della vita sociale.

Qual è il senso della trasformazione digitale

Il senso della trasformazione digitale si può riassumere in un principio tanto enunciato da apparire ormai ovvio e quanto difficile da rispettare: la customer centricity. “Se vuoi creare un grande prodotto, concentrati su una persona e fai in modo che abbia la migliore esperienza possibile” è uno dei mantra di Brian Chesky, il founder di Airnbnb che ospitiamo e ascoltiamo in Italia come un guru. “Le piattaforme non sono solo motori di profitto ma strumenti che mettono le persone al centro, che uniscono comunità e puntano alla sostenibilità ambientale e sociale”, dicono le ricerche di Tommaso Buganza e Daniel Trabucchi che hanno appena pubblicato il libro Platform Thinking. “L’innovazione abilitata dalle piattaforme non è solo innovazione tecnologica; è un modo diverso di intendere il mondo” spiegano.

Amazon, Airbnb, Spotify, Netflix e via dominando sono aziende, magari implacabili e dure al proprio interno ma con una visione del mondo basata sulla risposta a un’esigenza diffusa e alimentata da una vera ossessione per il cliente, che viene osservato, analizzato, pedinato e che ricambia fino al punto di sottomettersi senza rendersene conto. È un modello basato sui dati, i feedback degli utenti, la semplificazione dell’esperienza, esattamente il contrario di quanto ancora troppo spesso, accade in aziende italiane che affrontano con comprensibile orgoglio percorsi di trasformazione digitale come la digitalizzazione dell’esistente, di processi complessi, complicati e autoreferenziali, finendo così per complicare la vita di clienti e utenti.

La fine di Confindustria Digitale: un segnale forte della confusione italiana

Quanto abbiamo capito delle aziende-piattaforma? Se è vero che Confindustria costituisce la più autorevole rappresentanza del sistema economico italiano, lo scioglimento di Confindustria Digitale è un segnale forte della confusione esistente sulla questione, la manifestazione della visione più diffusa del digitale in Italia: pochi nelle stanze che contano lo considerano un mercato di valore, molti lo considerano ancora un obbligo da rispettare sull’altare della modernità, senz’altro una buona opportunità di marketing, sicuramente la necessitò di entrare in uno spazio in cui si muovono quei potenti e prepotenti degli americani.

Che cosa è successo in viale dell’Astronomia? Confindustria Digitale si è spenta per autoestinzione dopo 12 anni di vita solo a tratti brillante, con presidenze prestigiose ma non sempre convinte e determinate. Una federazione che si regge sue due associazioni (Anitenc-Assinform e Asstel, anche se sulla carta ne aderivano altre sei ma di ridotto peso…) è destinata a restare debole, perché ha poche risorse e quindi poca struttura. È mancata, quindi, la capacità di attrarre i soggetti della nuova economia digitale, di fare sintesi, di portare a convergenza digitale e telecomunicazioni.

Confindustria Digitale, perché si scioglie adesso?

Nata nel 2011, quando di digitale si parlava ancora poco o comunque assai meno di oggi, aveva messo insieme la voce delle compagnie telefoniche con quella dell’ICT. Nel frattempo, il mercato è cambiato e anche i pesi specifici, mentre le telco si sono avvitate in una crisi ancora irrisolta. Ma, nonostante questo, si considerano ancora il centro del digitale, guardano poco fuori dalle loro stanze e fanno fatica a sedersi agli stessi tavoli con i grandi player del mercato digitali, se non per fare rivendicazioni. Dice un funzionario che conosce bene i corridoi di Viale dell’Astronomia: “Si diventa attraenti, si genera valore e si diventa influenti solo con un approccio inclusivo, che prevede il riconoscimento del valore degli altri”.

Ma perché si è arrivati proprio adesso allo scioglimento di Confindustria Digitale? Le malelingue segnalano la causa scatenante nella prossima campagna elettorale per il rinnovo della presidenza nazionale e il voto delle telco pesa ancora. Certo, sono solo maldicenze, che però da sole confermano quanto il digitale sia ancora considerata materia sacrificabile a ragioni superiori. Ufficialmente in viale dell’Astronomia si sta lavorando a una riorganizzazione e razionalizzazione della rappresentanza del mondo digitale all’interno del sistema di Confindustria, “un passaggio evolutivo verso una migliore focalizzazione della capacità di rappresentanza delle due principali componenti associative di Confindustria Digitale stessa”. Appunto, telco e ICT, la convergenza finora impossibile.

Gli impegni italiani del 2024, a partire da G7 in Puglia

L’uscita dal mercato del brand Confindustria Digitale è certamente un’occasione persa per Confindustria, che evidentemente non è riuscita a diventare catalizzatore del nuovo mondo imprenditoriale sviluppatosi attorno alla tecnologia e all’innovazione. E, d’altro canto, la frammentazione della rappresentanza costituisce un rischio per tutto il sistema perché lascia libero il decisore di decidere in autonomia, quindi come vuole. I tempi della riorganizzazione in viale dell’Astronomia non saranno brevi e sicuramente i lavori non si concluderanno prima del rinnovo dei vertici, nella primavera 2024.

L’anno prossimo l’Italia ospiterà il G7, in Puglia, a metà giugno. Certamente la tecnologia, il digitale, l’intelligenza artificiale e la sua regolamentazione saranno fra i temi in agenda (anche per questo la premier Meloni ha accolto l’invito di Suniak a Londra). E, collegata, c’è la grande questione del lavoro 4.0, delle macchine che possono distruggere occupazione e richiedono nuove competenze. Si possono affrontare problemi tanto complessi e importanti per il nostro futuro senza una lucida visione del digitale e della trasformazione che ha generato e sta generando?

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Giovanni Iozzia
Giovanni Iozzia

Ho studiato sociologia ma da sempre faccio il giornalista e seguo la tecnologia . Sono stato direttore di Capital, vicedirettore di Chi e condirettore di PanoramaEconomy.

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