TOP MANAGER & STARTUPPER

Come le big Usa succhiano linfa dagli innovatori

Da Pepsi a Nike, le corporation americane si imbarcano sulle nuove imprese senza le remore delle aziende italiane. E non esitano a frequentarle per imparare a cambiare e crescere. Come nel caso della ex Kraft con Waze

Pubblicato il 24 Giu 2013

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Galeotti sono stati i Digital Labs della PepsiCo: Andrea Harrison, direttore del digital engagement della multinazionale americana, ha incontrato qualche tempo fa a New York, a una riunione tra imprenditori hi-tech, Josh Emert e Austin Evarts, co-fondatori di GoChime, start-up che propone agli utenti Internet annunci pubblicitari targettizzati in base ai contenuti dei loro profili sui social media (in pratica direct marketing in salsa social). Il top-manager e i giovani start-upper si sono parlati, confrontati e stretti la mano. E alla fine il dirigente ha chiesto ai due di lavorare su una campagna pubblicitaria ritagliata su misura per i fan della trasmissione televisiva “X Factor”. In sei settimane erano pronti: lo stesso tempo, hanno sottolineato i neo-imprenditori, che avrebbero normalmente impiegato per individuare il contatto giusto all’interno di una grande azienda e fissare un incontro. Anche se, ammettono, avere come cliente un big dell’industria mondiale li ha fatti sentire particolarmente sotto pressione.

È un fenomeno che sta prendendo sempre più piede negli Usa: i colossi dell’imprenditoria, per continuare a crescere, hanno bisogno di succhiare linfa vitale dai piccoli, ricchi di entusiasmo e soprattutto di idee, perciò si imbarcano come “embedded” all’interno delle start-up ritenute più promettenti, in un rapporto di collaborazione che di solito finisce per soddisfare entrambi.

Funziona così, per esempio, tra Mondelez International, la ex Kraft Food, e Waze, start-up fondata da israeliani e impegnata nello sviluppo di app per la navigazione social. Qualche mese fa decine di manager provenienti dalle aziende controllate da Mondelez hanno trascorso una settimana nei locali delle start-up impegnate nella tecnologia mobile, tra cui appunto Waze, telefonando, scrivendo, partecipando alle riunioni e discutendo con i Ceo.Simile approccio per i colossi farmaceutici Johnson & Johnson e GlaxoSmithKline, che l’anno scorso hanno investito 50 milioni di dollari ciascuno in un venture fund da 200 milioni nato per accompagnare le imprese bio-tech nei loro primi passi. Inoltre J&J sta avviando 4 centri per l’innovazione – a Boston, Londra, Shangai e San Francisco – per finanziare ricerche di biologia e accelerare così l’immissione sul mercato di nuovi farmaci.

Sulla stessa scia Nike e Microsoft. La multinazionale dell’abbigliamento, attraverso un programma trimestrale in collaborazione con TechStars, acceleratore di start-up, ha deciso di scommettere su 10 neonate aziende che stanno sviluppando tecnologie adatte ai suoi dispositivi come FuelBand, il braccialetto in grado di effettuare il tracking delle nostre attività quando corriamo, facciamo sport o balliamo. E, sempre con TechStars, la Microsoft ha creato un incubatore a Seattle per imprese che stanno sviluppando prodotti per Microsoft Kinect e Windows Azure.

Risultati positivi dell’alleanza tra i Davide e i Golia dell’hi-tech: niente più incontri di lavoro formali e distaccati, né rapporti attraverso soggetti terzi, né faticose elucubrazioni, da parte dei giovani imprenditori, su cosa desiderino effettivamente i loro fratelli maggiori. E, naturalmente, il vantaggio per i primi di ottenere finanziamenti dai secondi, contando di conquistarli passo dopo passo per poi riuscire a inserirli nella lista dei clienti.Effetti collaterali: ansia da prestazione per gli start-upper che, dai garage (simbolici o reali che siano), si ritrovano improvvisamente su palcoscenici molto più vasti e impegnativi. E anche l’eventualità di finire per dipendere da un unico soggetto, per quanto importante che sia. Ma la presenza dei big, in genere, non è considerata particolarmente invasiva. E i benefici sembrano in definitiva prevalere sui rischi.

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