IMPRESA FOR GOOD

Come gestire il welfare aziendale in un’impresa responsabile



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Nel welfare aziendale occorre trovare un giusto equilibrio fra l’esigenza di “standardizzare” e quello di rispondere ad esigenze specifiche. Ecco come organizzarlo e gestirlo in un'”impresa for good”

Pubblicato il 5 feb 2024

Paolo Braguzzi

Attivista del business for good



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Parlando in un altro articolo del concetto di Responsabilità Integrale d’impresa ho affermato che una delle sue dimensioni è quella dell’impatto che la stessa genera dal punto di vista economico, ambientale, sociale ed umano. Quest’ultimo viene spesso ricompreso nell’impatto sociale, mentre io credo che sia importante tenerlo distinto. La ragione per farlo è che non deve essere mai messa in secondo piano la dimensione individuale dell’impatto, così che non si trascuri il contributo che l’impresa dà al benessere delle singole persone, in prima battuta di chi ci lavora ma non solo. Mi ha colpito a suo tempo la visione di questo video in cui R. Edward Freeman, che si può considerare a pieno titolo come il fondatore del concetto di impresa orientata agli stakeholder, afferma che non ci si deve mai dimenticare che gli stakeholder sono persone e non categorie astratte. 

Stakeholders Are People - R. Edward Freeman

Il benessere di chi lavora in azienda: come affrontare la questione in un’impresa for good

Mi concentro in questo caso sulle persone che lavorano nell’impresa e su come affrontare la tematica del loro benessere, non prima di affermare che questo è solo uno dei fattori che va tenuto in considerazione. Oltre il benessere c’è infatti il contributo all’auto-realizzazione, cioè la piena “fioritura” della persona nel lavoro, sino alla felicità, concetto che però va affrontato con un certo pudore (l’idea dell’”happiness manager” non mi ha mai convinto mentre sono certo che ci siano gli “unhappiness manager”).

In Italia solo uno su 7 si sente “ingaggiato” nel proprio lavoro

Il punto di partenza dei ragionamenti che condivido su queste tematiche sono i “drammatici” risultati della ricerca che la società internazionale di consulenza Gallup periodicamente realizza sul livello di ingaggio e soddisfazione delle persone al lavoro. Secondo questa ricerca, la più accreditata nel mondo su queste tematiche, meno di una persona su 4 al mondo si sente ingaggiata nel proprio lavoro. In Italia scendiamo a una su 7. Anche se questo dipendesse un po’ dalla nostra attitudine al lamento (mi scusi il lettore, ma è quello che pensano di noi più o meno in tutto il mondo) questi sono numeri preoccupanti, perché il rapporto fra ingaggio e soddisfazione è scontato, e quando l’ingaggio è basso significa che le persone non vivono al meglio la loro esperienza lavorativa. Senza trascurare che un basso livello di ingaggio porta difficilmente a far sì che le persone diano il meglio di sé e quindi che l’impresa ne goda.

Welfare aziendale: va orientato in modo flessibile

Bene, una risposta “miracolosa” a questa situazione è spesso considerata il sistema di Welfare aziendale, a cui è demandata la responsabilità di affrontare il tema del benessere. Purtroppo, il Welfare aziendale viene spesso inteso come una mera lista di opportunità che vengono offerte allo staff di un’impresa sotto forma di incentivi monetari che le persone possono utilizzare per pagare più o meno quello che gli pare. Insomma, un po’ una panacea, un po’ una scorciatoia.

Perché il Welfare abbia davvero impatto deve orientarsi, oltre che a questi benefici che sono comunque e ovviamente graditi, alla definizione di regole e alla fornitura di servizi in grado di semplificare o migliorare davvero la vita delle singole persone, anche con il coraggio di andare ben oltre le consuetudini. Il mega-coperchio che si è sollevato sul tema della flessibilità a causa della pandemia dimostra come ci siano bisogni veri e profondi che vengono lasciati insoddisfatti se non si cambiano radicalmente le regole. Ancora il Welfare deve essere integrato da comportamenti che vadano oltre regole e servizi, ma che tengano conto di come la “cultura” dell’impresa si deve evolvere per generare benessere.

Welfare aziendale: i criteri da seguire

Come il concetto di Welfare può quindi esprimere al meglio il suo potenziale di creazione di benessere? Il punto di partenza è trovare un giusto equilibrio fra l’esigenza di “standardizzare” e quello di rispondere ad esigenze specifiche.  Questo comporta la differenziazione di ciò che si propone in funzione dell’appartenenza a gruppi che hanno bisogni tendenzialmente omogenei fra di loro. Fra questi gruppi, quelli che è certamente opportuno considerare in una logica di questo tipo sono:

i genitori con figli in età prescolare o scolare, distinguendoli fra di loro perché hanno esigenze diverse;

i caregiver, cioè le persone con famigliari che necessitano di assistenza, sia che questa esigenza sia temporanea che strutturale;

i pendolari;

le persone che si sono trasferite da altre città, che a loro volta si differenziano fra coloro che hanno la famiglia con sé, coloro che non l’hanno portata e infine i single;

le persone che provengono da altri Paesi, che non sono ovviamente solo i cosiddetti expatriate, che normalmente ricevono già molte attenzioni, ma anche le persone che emigrano nel nostro paese alla ricerca di lavoro.

Affrontare questa tematica in modo compiuto significa chiedersi per ciascuno di questi gruppi che cosa può rendere la vita migliore alle persone che ne fanno parte, durante e a margine del tempo di lavoro, a partire dal non peggiorarla. La cosa buona è che lo si può capire abbastanza facilmente. Da un lato basta coinvolgere le persone nella ricerca delle risposte, dall’altro si deve aprire lo sguardo, andare oltre l’ovvio e pensare a tutti i lati del problema che si vuole risolvere e non alle soluzioni già esistenti. Rispetto a questa visione d’insieme del problema faccio un esempio su un gruppo importante: i neo-genitori.

Si può infatti corrispondere alle loro esigenze attraverso la flessibilità degli orari o le convenzioni con gli asili, o per chi se lo può permettere creando l’asilo aziendale. Si può andare un po’ più in là e proporre corsi di formazione sulla genitorialità o organizzare gruppi di “tagesmutter”. Ma, siccome il welfare non basta e servono nuovi comportamenti, si devono prima di tutto eliminare le situazioni di ingiustizia che ricorrono quando si discrimina prima, durante e dopo la maternità: in merito vale la pena di guardare il TED talk di Sonia Malaspina  e leggere il suo libro “Il congedo originale”.

Come implementare la parità di genere sul posto di lavoro | Sonia Malaspina | TEDxLegnano

Infine, come agire se le cause di malessere provengono dagli ambiti extra lavorativi? Dal mio punto di vista le imprese hanno un forte interesse ad occuparsi anche di questo. Non esiste una distinzione fra la persona che lavora e la stessa che vive al di fuori del lavoro e quindi se ci si preoccupa del benessere della stessa lo si deve fare nella sua interezza, perché chi vive situazioni di disagio al di fuori del lavoro non può che rifletterlo sullo stesso. In questa prospettiva ha senso considerare l’offerta di servizi di supporto alle persone in stato di difficoltà. Questi possono variare dal counselling psicologico, che può essere spinto sino ad affrontare i problemi più gravi come quelli legati alle dipendenze, anche di propri famigliari, al supporto materiale, quando ad esempio la persona si trova in uno stato di difficoltà economiche.

Insomma, con un po’ di creatività e di impegno a non essere superficiali si può fare molto, e far sì che benessere e lavoro vadano a braccetto, a beneficio davvero di tutti.

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