L'INTERVISTA

Claudio Bassoli (HPE): “Viviamo in un momento magico per il digitale”

“La magia adesso è sapere che cosa fare di tutti i dati che abbiamo a disposizione per estrarre un valore che aiuti anche a migliorare la vita delle persone”, dice Claudio Bassoli, amministratore delegato di HPE Italia da un anno. Che spiega le difficoltà che ci sono ancora nelle aziende per utilizzarli

Pubblicato il 16 Mar 2023

Claudio Bassoli, presidente e amministratore delegato HPE Italia

“Viviamo in un momento magico per il digitale”. E se lo dice Claudio Bassoli bisogna credergli. Da un anno è amministratore delegato di HPE Italia ma è sul campo da 35 e ne ha visti di cambiamenti, in azienda (da HP a Hewlett Packard Enterprise) e sul mercato (dagli ingombranti computer in ufficio per fare calcoli complessi al web ovunque).

“Sono stati 12 mesi intensi, come sempre nelle mie due vite in HPE. Nella prima, dal 1997 al 1994 ho avuto anche la fortuna di conoscere i due fondatori William Hewlett e David Packard, che sono stati tra i padri della Silicon Valley”. E deve essere stato un momento emozionante per un giovane uscito da Scienza dell’informazione, tesi di laurea con Gianni Degli Antoni, un mito dell’informatica italiana e un precursore della cultura digitale.

Incontrare Claudio Bassoli, quindi, è come salire su un’altana, un osservatorio privilegiato dal quale si ha una vista lunga sulla trasformazione digitale nell’economia italiana, ritardi e difficoltà compresi.

Bassoli, perché è un momento magico per il digitale?
“Anche un tornio ormai produce dati o, per fare un altro esempio, le centraline delle auto sono come due/tre microdata center. Oggi i dati, nella maggioranza dei casi, non sono più prodotti all’interno dei data center, ma fuori. La magia adesso è sapere che cosa fare di tutti questi dati per estrarre un valore che aiuti anche a migliorare la vita delle persone. Basti pensare a tutte le potenzialità della medicina predittiva.

Quindi parliamo di dati, che sono l’essenza del digitale e della trasformazione del business. HPE ha fatto un’indagine globale sulla data maturity delle imprese da cui emergono gap di tipo strategico, organizzativo e tecnologico. L’Italia è in linea con la media globale, a metà della scala che porta al livello più alto, quello definito di data economics, quando un’azienda riesce davvero a far rendere i dati. Quali sono ancora le difficoltà e le resistenze?
Ce ne sono almeno di tre tipi. Ma prima voglio ricordare che il dato è ciò che oggi permette ad aziende e pubbliche amministrazioni di erogare servizi, magari creandone di nuovi, e fare il proprio business. Chi non ha la visione e le competenze per gestire i dati rischia di costruire un Paese che torna indietro invece di andare avanti o di dissipare il valore di un’azienda in pochi anni, perché ci saranno altri che riusciranno ad essere più efficaci ed efficienti. . La data maturity è una sfida per tutto il Paese e noi, gratuitamente, mettiamo a disposizione di aziende e pubbliche amministrazioni la nostra metodologia per capire a che punto si è nell’uso dei dati

Torniamo alle difficoltà…
La prima è la governance. Per come si è sviluppato il digitale negli scorsi decenni i dati sono posti in silos: quindi, oggi aziende e PA devono investire per farli comunicare. E questo rappresenta un freno, anche se la situazione sta cambiando con la proposta di architetture aperte come quelle di HPE.

Qual è la vostra visione sui dati?
Lasciare i dati dove vengono generati e portare lì la capacità di gestione ed elaborazione senza spostarli. Non tutte le aziende hanno questa visione. Ma dimenticano che spostare i dati ha costi energetici enormi e aumenta il rischio di attacchi. Se invece il dato non si muove, vengono risolti i problemi di sicurezza e di proprietà. Le aziende devono decidere se vogliono centralizzare i dati o distribuirli, se tenerli in casa propria o altrove, cercando allo stesso tempo di comprendere quali dati ci sono sul mercato che possono potenziare i propri. Ci sono poche aziende oggi che hanno una strategia chiara e una governance efficace e raramente partono dal dato per agganciarlo a una tipologia di servizio.

La governance, quindi, resta ancora un problema. Qual è la seconda barriera?
Le infrastrutture tecnologiche, che diventano sempre più complesse e potenti: devo capire come funzionano, un’infarinatura almeno devo averla. E invece in Italia pensiamo ancora che una o l’altra pari sono. Io ho visto tutte le generazioni di apparecchi per la telefonia mobile e so che oggi non è possibile avere l’iPhone come riferimento. Chi ha capito prima che la tecnologia andava in quella direzione, ha sviluppato app e ha conquistato posizioni di mercato importanti. Chi invece pensava che un telefono valesse l’altro ha patito e diverse società sono anche fallite.

La soluzione?
Avere capacità di visione e non banalizzare le infrastrutture. HPE è stata la prima società al mondo a lanciare un supercomputer capace di elaborare miliardi di operazioni al secondo (si chiama Frontier, ndr.): ci costringe a ripensare tutto quello che facevamo prima e come lo facevamo. Ma avrò un grande vantaggio, così come chi si è organizzato per usare tutta la sua potenza. Non a casa è stato scelto da Dipartimento dell’Energia del governo americano. Chi ha le competenze per capire dove va la tecnologia e si prepara in tempo conquista il mondo.

Governance, comprensione della tecnologia e delle infrastrutture e la terza difficoltà?
La finanza. L’adeguamento tecnologico ha dei costi che spesso spaventano ma non sempre sono così insostenibili come si suppone. Ci sono opportunità di mercato che permettono di avere accesso immediato alla tecnologia anche a piccole e medie aziende. Penso al cloud computing e alla nuova generazione di infrastrutture che prevedono un pagamento dei servizi a consumo.

D’accordo, ma la tecnologia non si ferma e gli aggiornamenti costano…
È vero, ma anche data center e infrastrutture si stanno adeguando alla logica degli aggiornamenti continui, sia per l’hardware sia per il software. Per esempio, per difendersi dagli attacchi cyber nel cloud as a service sono sempre garantiti. È quanto noi offriamo con GreenLake, una piattaforma che democratizza il digitale, lo rende accessibile a chiunque, perché non ha costi di ingresso né tempi lunghi di implementazione, perché il cliente non deve adattare i suoi sistemi e può contare su continui aggiornamenti. Abbiamo calcolato che con questo sistema il tempo di rilascio delle applicazioni si abbatte del 70%, perché mantenendo aggiornate le infrastrutture non si perde tempo e si riducono di conseguenza i cicli di innovazione. Altro fattore è la sostenibilità: tutte le nostre infrastrutture sono riciclabili al 99%.

Quali sono le industry che vede più avanti nel percorso di trasformazione digitale e quelle ancora indietro?
Paradossalmente fanno più fatica quelle aziende che magari sono partite prima con i processi di digitalizzazione: adesso sono appesantite dalla legacy infrastrutturale e hanno dati raccolti da tantissimo tempo ma in silos sigillati. Questa situazione crea un grande vincolo perché c’è il timore di lasciare il vecchio, cercano di mettere attorno all’esistente pezzi nuovi, ma non riescono a mettere insieme i dati che questi generano con quelli storicizzati. Magari cambiano fronte end, quindi la relazione con il cliente, ma non riescono a offrire servizi nuovi e innovativi ai clienti/cittadini. Un esempio è il mondo delle banche: pensiamo a quante transazioni gestiscono, a quante informazioni hanno ma non sono ancora in grado di fare proposte veloci, perché non riescono a combinare i dati.

Chi sta meglio?
Le realtà più avanzate adesso si trovano nel settore manifatturiero, grazie a Industria4.0 e alle sue evoluzioni, che ha trasformato macchine utensili in apparati digitali, che generano dati e abilitano la nascita di nuovi modelli di business basati sul servizio. Oltretutto riescono anche a ridurre i costi, migliorando i processi e il ciclo di vita dei prodotti: in una parola, aumentano la produttività. Un altro settore che sta facendo passi importanti è la sanità. Basti pensare alle aziende che, grazie alle nuovissime tecnologie e alla loro potenza di calcolp, in poche settimane sono riuscite a ricostruire la sequenza del coronavirus e a produrre i vaccini, ottenendo un enorme vantaggio competitivo sul mercato.

Bassoli, quali programmi ha per il suo secondo anno alla guida di HPE Italia?
Ho ereditato i migliori anni dell’azienda, quelli della gestione di Stefano Venturi. Adesso la sfida è andare oltre. Uno dei miei punti di forza è avere la possibilità di fare investimenti in Italia. In tutte le aziende americane in cui sono stato ci sono riuscito e voglio continuare a investire sulle infrastrutture e sulla formazione culturale. Dobbiamo lavorare tutti per far crescere la cultura digitale del Paese nella fascia da 25 anni in su, dopo che si lasciano gli studi. Per questo tra le nostre numerose attività probono c’è l’insegnamento del digitale nelle scuole.

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Giovanni Iozzia
Giovanni Iozzia

Ho studiato sociologia ma da sempre faccio il giornalista e seguo la tecnologia . Sono stato direttore di Capital, vicedirettore di Chi e condirettore di PanoramaEconomy.

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