Quando partecipa alle regate, Claudia Parzani viene appesa fuori. Letteralmente. Imbragata di tutto punto, viene calata lungo la fiancata dell’imbarcazione, armata di acqua e detergenti, per effettuare le indispensabili attività di pulizia. “Non è quello che tutti vogliono fare – dice – ma a me piace da morire perché mi consente di uscire dalla comfort zone, mi costringe a guardare le cose da fuori, mette alla prova la mia flessibilità, mi permette di fare salti in avanti e di lato, tira fuori il coraggio. In altre parole, mi regala l’attitudine all’innovazione”.
Un mare, quello dell’innovazione, che lei solca ormai da diversi anni, seppure a bordo di “imbarcazioni” di volta in volta diverse. C’è la nave dell’avvocatura: nata a Brescia e cresciuta a Milano, Claudia è avvocata imprenditoriale (così lei stessa ama definirsi per sottolineare il collegamento tra la professione legale e il mondo dell’imprenditoria) specializzata in mercati di capitale e corporate governance, ed è partner del colosso inglese Linklaters per il quale guida i nove uffici dell’Europa occidentale. Fa anche parte dell’equipaggio del “transatlantico” Allianz Italia Spa, di cui è presidente. È a bordo della “corrazzata” Borsa Italiana in qualità di vicepresidente (a marzo 2022 Claudia è diventata presidente di Borsa Italiana, ndr). È insomma una capitana di lungo corso che, oltre a stare al timone (e a farsi calare fuori dalle barche), ama tuffarsi nelle acque dell’impegno sociale: fondatrice del network femminile Breakfast@Linklaters, ha guidato Valore D (associazione di grandi imprese nata per sostenere la leadership femminile) ed è madrina di Inspiring Girls, programma innovativo di mentoring per ragazze. Innumerevoli i riconoscimenti ottenuti per il suo impegno professionale e sociale: quest’anno, per la quinta volta consecutiva, è stata inclusa da HERoes e Yahoo Finance nella classifica Women Role Model 2021, che premia chi contribuisce al miglioramento della posizione delle donne nel mondo del lavoro. Ed è l’unica italiana inclusa nella categoria Heroes 100 Women Executives che celebra 100 donne in ruoli apicali a livello internazionale.
Prendiamo dunque spunto da questa recente partecipazione per chiedere a Claudia Parzani, in questa intervista esclusiva per EconomyUp, cosa significa per lei innovazione.
“Non mi sono mai focalizzata nel fare innovazione – risponde Claudia – ma è parte integrante di me, un ‘pezzo’ che mi porto dietro insieme a tutto il resto. Innanzitutto significa uscire dalla comfort zone: personalmente mi sono sempre divertita di più a fare le cose che non sapevo fare. Per esempio, da avvocato, ho iniziato a occuparmi di management, per poi assumere altri nuovi ruoli e accettare nuove sfide. Questo mi ha consentito di portare idee nuove e di sviluppare tantissima flessibilità. Lo svantaggio è che non seguo lo stesso iter degli altri, quindi faccio più fatica all’inizio, ma l’enorme vantaggio è uscire dalla zona di sicurezza per essere contaminati da ciò che arriva dall’esterno. Solo così è possibile individuare soluzioni innovative in contesti nuovi. È, appunto, lo stesso meccanismo di quando faccio le regate e mi sporgo all’esterno. La prospettiva cambia completamente guardando le cose a distanza.
Come applica questa ricerca di “contaminazione” al lavoro?
Nei consigli di amministrazione sono quella che dice: “Osate e guardate a profili in apparenza lontani dal vostro. Penso a un esponente del mondo della finanza che si confronta con uno che viene dal luxury e così via. Decisioni del genere sono figlie del coraggio. Purtroppo spesso prevale un atteggiamento conservativo. Molte persone hanno paura di perdere quello che hanno e tendono alla conservazione: “Abbiamo sempre fatto così” è una delle risposte più anti-innovazione che conosca.
Come è riuscita a portare innovazione nel mondo legale? Quali ostacoli? Quali opportunità?
Quello legale è un ambiente molto conservatore, io cerco di unire competenza tecnica ed esperienza pratica. Ma soprattutto cerco di arricchirlo con le cose che faccio fuori dal mondo strettamente giuridico. In tanti pensavano che non si sarebbero, per così dire, amalgamate con la mia professione, invece è proprio l’insieme di queste attività a darmi la possibilità di amplificare e rafforzare la mia relazione con il cliente, costruendo relazioni “complete”. Posso spiegare l’aspetto tecnico di una questione, presentare un caso pratico, illustrare le best practice su come gestire un board perché sono io stessa nei board, posso affrontare la questione dei talenti interni così come quella dell’inclusione e della diversity, temi sempre più cari alle aziende. Sono in grado di creare una relazione fiduciaria basata sulla reputation. Bisogna prima costruire la propria personalità, poi trovare il proprio posto. Più riesci a essere coerente e unico, più le persone ti cercano: in una relazione di lavoro, così come nella vita, porti dentro le cose belle e anche quelle meno belle. Per esempio io sono stata bocciata la prima volta all’esame di avvocato dopo essermi laureata con 110 e lode, e non mi sono mai vergognata a dirlo. L’ho considerata una cosa molto umana. In definitiva il potere più grande risiede nella fragilità.
Ha citato inclusione e diversità, temi di cui è stata pioniera in Italia. Perché un avvocato dovrebbe impegnarsi in questo campo?
In passato molta gente la considerava una perdita di tempo, non correlata alla professione, intanto io costruivo, mattoncino su mattoncino. Non ho mai smesso. Mi sono occupata delle donne, ma non solo. Per me un mondo migliore significa: donne, meritocrazia, supporto ai giovani e ai disabili. Ultimamente mi sono occupata anche di rifugiati, faccio parte di “Special Friends”, un advisory board dell’Uhncr. Voglio passare questo messaggio anche alle mie figlie, far capire loro quanto sono fortunate. Durante il lockdown abbiamo organizzato insieme una raccolta fondi per un progetto di supporto psicologico ai ragazzi.
L’impegno sociale è anche alla base dei temi ESG (Environmental, Social and Governance). Perché sono sempre più centrali per le aziende?
Credo che oggi l’azienda debba essere più che mai un’impresa sociale. Se intorno a te c’è un tessuto sociale deteriorato, dove nessuno vuole venire a vivere e abitare, non puoi nemmeno esercitare attrazione come azienda. Per questo l’imprenditore deve impegnarsi a creare cultura e lavorare sul capitale umano. In questi contesti ci tengo a usare la parola felicità. Chiediamoci quanto può costare l’infelicità in azienda: vuol dire che le persone vanno malvolentieri al lavoro, sono appiattite sui loro compiti perciò li svolgono in modo meno convinto, magari si ammalano di più…La felicità in azienda è la nuova frontiera. Ma bisogna partire con progetti concreti, altrimenti rischiamo di muoverci in una bolla. Le società devono lavorare per far sì che la governance sia il primo pillar, perché è essenziale sia per il capitale umano sia per la sostanza dell’attività svolta.
Come coniugare felicità in azienda e smart working?
Qualcuno si diverte a chiamarlo “sbat working”, perché alla fine rischia di diventare uno sbattimento. Il modello di lavoro creato dall’emergenza pandemica non può diventare predominante. Va creato un modello strategico, soprattutto a tutela delle donne, che forse più di tutti hanno dovuto reinventarsi in questo periodo per bilanciare le esigenze del lavoro e della famiglia.
A proposito di donne: perché siamo ancora indietro in Italia nell’imprenditoria femminile?
Sono nata nel 1971, l’anno in cui hanno concesso per legge alle donne di fare il vigile urbano. Partendo da queste premesse, è chiaro che non è immaginabile, dopo soli 50 anni, avere tutte donne che dirigono o gestiscono aziende. Il cambiamento culturale richiede tempo, potrebbero servire 100 anni per raggiungere l’obiettivo. Intanto le donne sono entrate nei board e ci sono tante ragazze che studiano. Ci manca il potere esecutivo nelle aziende e il middle management. Di figure femminili senior non ce ne sono mai abbastanza, quelle più giovani spesso tendono ad abbandonare il percorso lavorativo.
È ancora così nel 2021?
Purtroppo la situazione non sta cambiando molto e le motivazioni sono diverse. Alcune banalmente perché hanno fatto un paio di figli e preferiscono stare a casa. Poi le giovani sono fuori da certe industrie, per tradizione interamente “maschili”. Una questione aggravata dalla pandemia: a febbraio 2021 l’Istat ci ricordava che, su 101mila nuovi disoccupati, 99mila erano donne. In pratica il 98% di coloro che hanno perso il lavoro in pandemia è di sesso femminile. Alla fine pagano sempre gli stessi e, anche in questo drammatico frangente, hanno pagato molto di più le donne. Dobbiamo spingere per l’occupazione femminile, creare nuove opportunità, supportarle nel loro percorso. Quando erano più piccole, alle mie figlie raccontavo ogni sera una favola diversa per farle addormentare. Ma non erano quelle classiche, che conoscono tutti. Le inventavo di sana pianta e lasciavo che loro proseguissero nel racconto usando la fantasia. Oggi noi donne dobbiamo fare così: inventarci il nostro percorso e perseguirlo con creatività. Ne siamo capaci, faremo un buon lavoro.