È tutto un manovrare, come nella serie tv diventata simbolo della svolta: House of cards. Gli intrighi della Casa Bianca trovano indifferenti i network Usa. Ma l’attore Kevin Spacey non intende rinunciare al progetto, diventa produttore e affida la serie a Netflix, società che dal noleggio fisico di dvd è passata allo streaming. La mette on line l’anno scorso: un successo. Che diventa subito un caso perché segna l’irrompere sul mercato di un nuovo protagonista: la streaming tv. Il video che viaggia sul web.
Adesso House of cards è, in Italia, il pezzo forte di un canale Sky. Ma Netflix resta il fantasma e, per alcuni, l’incubo, che si avvicina anche se per il momento sembra che dalle nostri parti non arriverà prima di uno o due anni. In Francia, dove si attende per settembre, gli operatori tv stanno cercando di fare terra bruciata, introducendo nuovi servizi VOD (video on demand) su smartphone e tablet a prezzi stracciati. In Italia sta succedendo qualcosa di simile in un’area dove si incontrano, si alleano e si contrastano operatori telco, broadcaster tradizionali, produttori di contenuti ma anche grandi operatori digitali multinazionali. Non dimentichiamo che la maggioranza dei contenuti video consumati on line sono su YouTube, cioè Google. Mentre tutte le corporation digitali, da Apple a Yahoo, hanno aperto o stanno aprendo le loro porte d’accesso alla tv o, meglio, ai contenuti video.
«Da tempo in Italia televisione non significa televisore», ha ricordato ai distratti Lorenzo Sassoli de Bianchi, presidente UPA (gli inserzionisti pubblicitari), in occasione dell’assemblea annuale. E soprattutto non significa palinsesto, programmazione lineare, orari fissi stabiliti da chi offre il contenuto. “Papà, perché devo guardare Streghe (un telefilm che andava qualche anno fa su Italia1) in un’ora in cui devo studiare?”, domandava mia figlia adolescente per spiegarmi l’intenso scambio di file video con le amiche. Poi è andata negli Stati Uniti per un po’ di mesi ed è tornata Netflix-dipendente. Basta vedere i comportamenti dei teenager per farsi un’idea di quello che potrà succedere fra pochi anni. Grazie alla diffusione delle connessioni Internet veloci, c’è un’intera generazione che non sta più davanti al televisore ma consuma tantissima televisione. Non solo su un pc, ma davanti agli schermi più piccoli ma in alta definizione di smartphone e tablet. È una tendenza globale: Cisco ha calcolato che entro il 2018 il 75% di tutto il traffico sulla Rete sarà fatto da video.
È la fine della televisione? No. Marshall Mc Luhan, circa 50 anni fa, la raccontava così: «Il prossimo medium, qualunque esso sia, includerà la televisione come contenuto non come ambiente e la trasformerà in una forma d’arte. Un computer come strumento di ricerca e di comunicazione potrebbe potenziare il recupero di informazioni, rendere obsoleta l’organizzazione delle biblioteche, ripristinare la funzione enciclopedica dell’individuo e trasformarsi in una linea privata di accesso a dati rapidamente confezionati di natura vendibile». È una straordinaria pre-visione del web. Semmai è finita l’era dei mass media, come sentenzia il sociologo canadese Derrick De Kerkhove, allievo di McLuhan. Non funziona più il modello dell’emittente che parla a molti. Adesso è il momento del produttore e/o distributore che offre a ciascuno la possibilità di farsi un palinsensto personale. YouTube, appunto. Ma anche il Vod, non più solo a casa, o il binge viewing, la possibilità di avere sempre a disposizione tutte le serie televisive. E magari di commentarle attraverso Twitter o Facebook, come succede per ogni altro programma (sono ormai oltre 13 milioni gli italiani a farlo secondo la prima indagine dell’Osservatorio Social Tv).
Non sono disquisizioni accademiche né tantomeno questioni tecnologiche. Ad essere ribaltata è la catena del valore. «La distinzione fra trasmissione e contenuto è venuta meno», osserva Carlo Alberto Carnevale Maffé, docente alla Sda Bocconi, consulente di compagnie tv e spietato analista. «Lo dimostra Google. Controllare il flusso di interazioni è a sua volta un pezzo di contenuto. Ne stabilisce la rilevanza, per esempio: su YouTube i video più cliccati sono i più rilevanti».
La questione non è chi fa che cosa (Microsoft che proudce serie tv…), ma chi ha il controllo dell’audience. «Partite, film, serie tv costano. Ma nel momento in cui la pubblicità è scollegata dal contenuto chi controlla la piattaforma controlla le risorse», spiega Carnevale Maffè. È il “caso Google”. «Chi interfaccia l’attenzione, intercetta l’adv. Un tempo c’erano mercati di occhi, oggi sono mercati di dita. La visione è passiva, l’interazione è attiva e vale molto di più».
Come finirà? Le televisioni tradizionali rischiano di retrocedere al ruolo di produttori di contenuti. Lasciando ad altri il controllo delle dita. «È l’abbraccio pericoloso delle telco», sintetizza Carnevale Maffé. «Ma piuttosto che finire travolti dagli OTT…»