Sono circa vent’anni, ossia da quando abbiamo fondato Funambol, che io e Fabrizio Capobianco volevamo andare al Burning Man.
Quest’anno ci siamo riusciti, coinvolgendo Vittorio Viarengo: sia perché Vittorio è un portatore inesauribile di adrenalina, sia perché ha un “big ass truck (RV)” che ha reso l’esperienza di camping nel deserto un po’ meno rough.
Che cosa è il Burning Man
Il Burning Man è un festival che si tiene tra le fine di agosto e inizio settembre a Black Rock City. Originariamente nato come un evento informale su una spiaggia di San Francisco, dal 1986 il Burning Man è diventato una manifestazione iconica.
Ogni anno, gente da tutto il mondo (circa 60-70 mila) si riunisce per costruire una città temporanea nel deserto, che prende vita per una settimana sulla “Playa”: un’ampia area pianeggiante che una volta era un lago e che al termine del festival deve rimanere incontaminata (ossia non deve rimanere nessun MOOP – Matter Out Of Place).
Al centro della Playa si trova l’“Esplanade”, un gigantesco spazio aperto che funge da cuore pulsante del festival. La Playa è organizzata ad anello, con strade disposte a spirale che si estendono dal centro verso l’esterno. Le strade principali, i raggi numerati da 2 a 10 e le parallele da A a K formano una griglia che facilita l’orientamento e connette vari settori.
Intorno a quest’area centrale, si distribuiscono i “camps”, che raccolgono da piccoli gruppi di amici fino a grandi collettivi. Ogni camp è responsabile dell’organizzazione e gestione di attività per i partecipanti, con un sistema basato esclusivamente sul “give back”, senza scambi di denaro. Viste le grandi distanze, la gente si muove in bici o scooter (per chi riesce a ricaricarli).
In particolare, l’Esplanade ospita due strutture iconiche: il Burning Man — una scultura in legno alta circa 15 metri che viene bruciata il sabato notte — e il Tempio — uno spazio in cui i partecipanti possono lasciare messaggi, fotografie e ricordi dedicati a persone care o esperienze significative. Al termine del festival, anche il Tempio viene incendiato, offrendo un momento di chiusura e di riflessione collettiva.
Ogni anno il paesaggio della Playa si trasforma in una galleria d’arte a cielo aperto: l’Esplanade viene infatti popolata da una serie di sculture, create da artisti di tutto il mondo, che variano per dimensioni e stili, spaziando da installazioni interattive a strutture monumentali che invitano i partecipanti a esplorare e interagire con esse.
Una giornata al Burning Man
Ogni giorno al Burning Man è caratterizzato da momenti topici.
Il principale è il tramonto, quando la luce dorata del sole si riflette sulle sculture e il cielo si tinge di sfumature arancioni e rosate. È quando la comunità si raduna per celebrare il Burn, che poi verrà riprodotto il sabato e domenica notte con l’incendio delle due costruzioni iconiche. È un momento magico che con i suoi colori pazzeschi toglie il fiato.
Allo stesso modo, l’alba: quando il sole sorge sul deserto, illuminando lentamente la Playa e le sculture circostanti, i partecipanti si radunano per salutare il nuovo giorno con un senso di rinnovamento, segnando l’inizio di una nuova giornata di esplorazioni e connessioni.
Il resto della giornata è scandito da centinaia di eventi organizzati dalle comunità di “burner” che mettono al servizio le proprie capacità e skill alla comunità a titolo gratuito attraverso workshop, dimostrazioni, eventi, momenti di meditazione e yoga, giochi,… Concerti, DJ Set e spettacoli tecnologici (luci, suoni, droni) completano l’esperienza.
In sintesi, in ogni minuto della giornata (dalle 0 alle 24) ci sono un’infinità di opzioni.
E il deserto, nella sua asperità (dal caldo torrido del pomeriggio al freddo della notte) fa da cornice al tutto.
Nota a margine: il tempo quest’anno è stato clemente. Temperature accettabili, pochissime tempeste di sabbia (anche perché abbiamo lasciato la Playa sabato notte, subito dopo il Burn. Domenica notte è arrivata una “epic sandstorm” che ha rallentato l’esodo). L’anno scorso era invece eccezionalmente piovuto, trasformando la Playa per un paio di giorni in una palude di fango in cui era quasi impossibile muoversi (piedi e ruote sprofondavano). Questo spiega come quest’anno la partecipazione sia stata minore rispetto al passato (ad occhio mancavano circa venti mila persone).
L’esplosione della “Radical Self Expression”
Al Burning Man ciascuno può esprimersi senza filtri: è quanto è conosciuto come “radical self expression”. Nel deserto la gente può uscire dagli schemi e dalle maschere imposte dal contesto in cui quotidianamente vive. L’abbigliamento, che spazia da costumi eccentrici (pellicce, cappelli, colori sgargianti, luci) fino al nulla, è un altro modo per manifestare questa trasformazione.
La “Utopian Brotherhood”
Come definire la comunità che affolla il Burning Man? Lo ho chiesto a Vittorio, che è rimasto sorpreso da un fatto: “Qui non vedi una singola istanza di tensione o confronto. È come se, limitandosi a dettare poche regole di base, la gente fosse naturalmente portata a esprimersi in modo etico e collaborativo”. C’è ovunque gentilezza e rispetto.
Però, come fa notare Fabrizio, è il risultato di una sorta di “self selection”. Qui convergono persone che sono mentalmente predisposte a fare un certo tipo di esperienza di comunità.
Una grande terapia di gruppo per la scoperta di sé
“Il Burning Man è come una grande terapia di gruppo”, è la sintesi che ha fatto Fabrizio. Quando si accetta di aprirsi, quando si lascia cadere la maschera, si ampliano le capacità di comprensione e di accettazione degli altri. È la cosiddetta “immediacy” che è uno dei principi cardine del Burning Man e che porta la gente a relazionarsi in modo semplice e non filtrato, senza dover rispondere alle etichette che la società impone.
Uno dei messaggi forti che sono stati passati attraverso diverse forme è l’invito alla scoperta di un “New Self” che è dentro ciascuno di noi. E l’invito a metterlo in scena, senza la paura del giudizio degli altri.
Tra rinascita e apocalisse
Abbiamo, però, percepito anche un lato quasi oscuro.
Il Burning Man sembra, in qualche misura, anticipare la “fine del mondo” as we know it.
La desolazione della Playa evoca il mondo devastato dal Climate Change descritto nel film “Ready Player One”. La temporaneità delle sue strutture e l’atmosfera di libagione 24/7 evocano un sentimento di impermanenza e vulnerabilità. Come se fossimo testimoni di un’ultima, gloriosa celebrazione prima di un inesorabile declino della civiltà.
Vittorio ha riflettuto su questo dicendo: “Era come se ci stessimo preparando per qualcosa di grande, qualcosa di finale. Che il Burning Man sia l’anticipazione della nuova società dominata dall’AI ove tutto è predisposto per intrattenere le persone e lasciarle dedicarsi all’arte, alla musica, al divertimento e alle relazioni?”.
Forse. Ma il Burning Man trasmette, allo stesso tempo, un’energia positiva e un drive incredibile. Che è quello che, alla fine, permette ogni anno di trasformare per dieci giorni uno spazio desolato in the middle of nowhere (siamo a 8 ore di macchina da San Francisco) in un posto accogliente e a misura d’uomo, in uno showcase di tecnologia (le figure disegnate in cielo da centinaia di droni sono state incredibili) e di creatività (sculture, mezzi di trasporto, costumi, …).
In definitiva, il Burning Man è stato un’opportunità per noi tre di distanziarci dal quotidiano e di poter comprendere più a fondo lo spirito della Silicon Valley dove abbiamo costruito la nostra carriera. È stato un viaggio tra espressione radicale, fraternità utopica e creatività assoluta che, senza dubbio, lascerà una traccia in noi (oltre ad averci fatto divertire un sacco).
Intimacy. So be it.