I DOSSIER DI ECONOMYUP

Big tech 2022: crisi congiunturale o inizio del declino?

Una ristrutturazione per riprendere la crescita o difficoltà strutturali dovute alla fine della spinta innovativa? Ecco un’attenta analisi della crisi delle big tech nel 2022 e le prospettive a breve e medio termine

Pubblicato il 19 Dic 2022

big tech

Big tech: si stanno ristrutturando per poi riprendere la loro crescita, analogamente a quanto da sempre fanno le imprese normali a fronte di crisi congiunturali? Oppure le loro difficoltà hanno una natura più profonda, derivante dall’affievolirsi con il successo della loro spinta innovativa e/o dai forti cambiamenti in atto nel contesto – geopolitico, regolamentare, economico, sociale e competitivo – in cui esse operano? Quella si è manifestata nel corso del 2022 è una crisi che le tocca tutte in misura simile o le loro situazioni e prospettive sono molto differenziate? Ci sono settori nuovi in crescita nell’ambito tech che fanno emergere nuovi protagonisti? O rientrano in gioco campioni del passato, che hanno saputo cavalcare il processo di trasformazione digitale per ripensare integralmente il loro business e renderlo competitivo nella nuova realtà?

Sono solo alcune delle tante domande che in questo momento ci si pone, a fronte da un lato di un mercato borsistico che – dopo gli entusiasmi del periodo pandemico – sta tornando velocemente sui suoi passi (e talora anche più indietro) e dall’altro di uno scenario del tutto nuovo per imprese come le big tech abituate a crescere, costellato di licenziamenti o comunque caratterizzato da una inusuale attenzione al contenimento dei costi e da una severa selettività negli investimenti. E un qualcosa di simile sta accadendo, in misura ancora più forte per alcune e più lieve per altre, per le imprese tech in generale.

Big tech 2022, di quali imprese stiamo parlando

Una domanda preliminare: che cosa si intende in questo articolo per imprese tech in generale e per big tech in particolare? Io ho messo a punto una mia tassonomia personale, partendo dall’osservare che

  • tech company e big tech sono termini utilizzati in modo molto elastico, con riferimento a insiemi di imprese dai confini non raramente sfumati;
  • si identificano spesso le big tech con le big five statunitensi – ovvero con Apple, Microsoft, Alphabet-Google [nel seguito Google], Amazon e Meta-Facebook [nel seguito Meta] – e in passato a esse venivano aggiunte di sovente le due big cinesi Tencent e Alibaba, che (prima del tech backlash lanciato da Xi Jinping nel 2020) avevano valori di Borsa dello stesso ordine di grandezza delle big five;
  • il termine big tech, soprattutto durante la bolla pandemica, era spesso utilizzato in modo generico: estendendolo a un insieme (esso pure indefinito) di altre imprese giudicate promettenti, accumunate dal fatto di avere una capitalizzazione rilevante e in continua crescita (destinata almeno apparentemente a proseguire nel tempo) e di essere state “pioniere” nell’utilizzare Internet per stravolgere gli equilibri di mercati consumer esistenti (disruptive innovation) e/o per crearne di completamente nuovi.

2022, il passaggio dalla crescita alla sostenibilità economica

Mentre la mia attenzione prevalente sarà rivolta alle big five, farò qualche considerazione anche su queste big tech “di seconda fila”, particolarmente colpite nelle loro capitalizzazioni da una logica di valutazione che nell’ultimo anno – a fronte soprattutto (ma non solo) dello scoppio dell’inflazione e delle misure restrittive adottate dalle banche centrali per combatterla – ha attribuito molto meno importanza alla crescita e molto più alla sostenibilità economica dei business model, che è passata cioè da una logica in gergo definita growth a una logica value. Nella fattispecie ho ritenuto di interesse, per la loro notorietà e per l’innovatività del loro business model, dieci imprese (tra parentesi il loro business principale):

  • le statunitensi Paypal (pagamenti), Netflix (streaming) e Salesforce (software as a service per il CRM), giunte durante la pandemia a valori di picco superiori a 300 miliardi di $,
  • la canadese Shopify (servizi per l’accesso all’ecommerce) e la cinese Pinduoduo (social commerce), con picchi sopra i 200,
  • le statunitensi Airbnb (servizi online per soggiorni brevi), Snap (instant messaging), Uber (ride-hailing e food delivery)  e Zoom (servizi meeting online) e la cinese JD.com (ecommerce), con picchi oltre i 100.

Non entrerò in considerazioni specifiche invece, pur fornendo qualche dato su di esse, sulle imprese facenti capo all’”ambito tech allargato”, che a mio avviso potrebbe comprendere

  • le imprese telecom, che abilitano l’accesso a Internet: T-Mobile US quella di valore più elevato (187,4 miliardi di $, con Deutsche Telekom principale azionista con una quota vicina al 50%), seguita dalla statunitense Verizon (155,7), dalla cinese China Mobile (153,7), dalla statunitense AT&T (133,6) e dalla tedesca Deutsche Telekom (101,2);
  • le imprese operanti a monte, quali quelle della filiera dei microprocessori (nelle vette assolute della classifica con la taiwanese TSMC, la statunitense Nvidia, la sudcoreana Samsung e l’olandese ASML) o i produttori di software per usi industriali o per il cloud;
  • le imprese che pur operando in comparti molto diversi hanno nell’utilizzo delle tecnologie digitali una fonte di differenziale competitivo determinante, quali Tesla nelle auto elettriche (che fu per questo definita “un iPhone con le ruote”) e Visa e Mastercard nei pagamenti (che dispongono di una infrastruttura informatica di connessione tale da essere incluse nella categoria S&P 500 “Information Technology” alle spalle di Apple e Microsoft);
  • le grandi imprese della distribuzione come Walmart e Home Depot che – pur avendo la componente ecommerce percentualmente minoritaria al loro interno – emergono fra i principali attori dell’ecommerce in termini assoluti.

Ricordando che queste definizioni riservano l’uso del termine tech – come, anche se impropriamente, avviene ormai da molti anni – alle tecnologie informatiche e alle filiere retrostanti. Ricordando che anche le big five, con i loro portafogli sempre più diversificati, hanno all’interno business che fanno capo all’”ambito tech allargato” e viceversa: emblematico il caso di Samsung, protagonista nel manufacturing dei microprocessori più avanzati e allo stesso tempo grande avversaria di Apple negli smartphone).

Una ultima osservazione introduttiva riguarda il perché della forte focalizzazione di questo articolo sulle big five. La ragione è semplice: esse non sono solo rilevanti in ambito tech e non sono solo rilevanti per le performance borsistiche, ma anche – a differenza di quelle che ho chiamato big tech “di seconda fila” – per i livelli assoluti dei loro utili e/o dei loro ricavi e/o degli addetti che esse occupano direttamente o in outsourcing.

Big five e altre imprese tech: i numeri della bolla pandemica

Fig. 1

Ho scelto la Fig. 1 (tratta da The Wall Street Journal) – che mostra l’andamento di Borsa delle big five fra dicembre 2021 e l’inizio di novembre di quest’anno – per iniziare la trattazione, perché essa offre una evidenza visiva immediata della consistenza del calo/crollo delle quotazioni, ma anche delle forti differenze nelle cadute di valore: di poco alterato il market cap di Apple a un estremo, in caduta libera quello di Meta (la nuova denominazione di Facebook) all’altro.

E ho fatto la scelta – nella Tab. 1 riportata di seguito – di prendere in considerazione un arco temporale più ampio, che parte da tre anni fa (fine novembre 2019) per arrivare sino a oggi (fine novembre 2022), con gli obiettivi di

  • evidenziare le dimensioni della bolla creatasi con la pandemia e sgonfiatasi poi per una serie di cause, quali in primo luogo le misure restrittive poste in atto dalle banche centrali per contrastare l’inflazione generatasi con la ripresa post-pandemica prima e con la guerra in Ucraina poi, ma anche l’impatto depressivo del forte rallentamento dell’economia cinese (a causa dello scoppio della bolla immobiliare ma pure delle politiche di Xi Jinping, nel contrastare il diffondersi della pandemia con continui giganteschi lockdown e nel cercare di distruggere per ragioni di potere le grandi imprese private e quelle consumer tech in primo luogo);
  • porre a raffronto la situazione attuale con quella precedente l’inizio della pandemia stessa, per cercare di capire quanto dell’aumento delle capitalizzazioni fosse di origine sostanzialmente finanziario-speculativa (causato cioè dall’enorme liquidità immessa nell’economia dai diversi governi per contrastare la potenziale crisi da lockdown e altre misure restrittive) e quanto viceversa sia almeno per ora rimasto in vita, premiando le imprese con i dati di bilancio e/o le prospettive ritenute più favorevoli.

Come termine di paragone è stato utilizzato sempre l’andamento dello S&P 500, il notissimo indice statunitense che cerca di rappresentare equamente – sulla base dei valori di Borsa – tutti i settori dell’economia: compreso il petrolifero che ha avuto recentemente un andamento speculare rispetto a quello tech.

Le dimensioni della bolla tech creatasi con la pandemia

I risultati, come si era già commentato guardando la Fig. 1 (relativa però al solo ultimo anno), sono molto differenziati nel confronto fra le big five. E lo sono ancora di più se si allarga l’analisi (Tab. 2) a quelle che ho denominato big tech “di seconda fila”.

Apple, dopo aver raggiunto a dicembre 2021 il suo picco – più 150 per cento circa rispetto a fine novembre 2019 – è scesa solo del 20 per cento. Microsoft e Google hanno avuto sia una crescita un po’ minore sia una discesa più consistente rispetto al picco, con la conseguenza che mentre il market cap di Apple è circa doppio (+ 97,8%) rispetto a tre anni fa, quello di Microsoft è cresciuto solo di circa due terzi (+ 65,3%) e quello di Google di poco meno della metà (+ 45,7%): incrementi tutti superiori rispetto allo S&P 500, prossimo al 30 per cento.

Inferiore rispetto alla crescita dello S&P 500 (+ 10,3% contro + 28,2%), invece, quella di Amazon, che ha continuato la sequenza di minori crescite (+ 108,3%) e maggiori discese rispetto al picco (- 47%) vista per le prime tre. Una sequenza proseguita con Meta, che dopo una caduta di più del 70 per cento rispetto al picco (agosto 2021) di oltre un trilione di $, vale ora la metà circa rispetto a tre anni fa.

L’andamento delle big tech di “seconda fila”

La caduta di Meta è particolarmente drammatica, anche se confrontata con l’andamento (Tab. 2) delle big tech “di seconda fila”. È vero che PayPal e Shopify hanno avuto un calo equivalente rispetto al picco, che Zoom e Snap lo hanno avuto addirittura superiore all’85 per cento e che le altre statunitensi (Salesforce, Netflix e Airbnb) lo hanno avuto comunque superiore al 50 per cento, ma per nessuna di esse la caduta è stata così violenta rispetto al livello pre-pandemia. La caduta peggiore, quella di Snap (che soffre peraltro di problemi simili), è stata percentualmente la metà di quella di Meta; non troppo lontane dalla parità sono Salesforce e Netflix; Shopify, Uber e Zoom valgono ora un po’ di più rispetto al 2019.

Imprese cinesi, tutta un’altra storia

Molto differente la storia delle imprese cinesi, di prima e seconda fila: tutte colpite, anche se in misura diversa, dal tech backlash lanciato come detto da Xi Jinping nel novembre 2020; tutte colpite dal proseguimento dei lockdown, in forma molto più pesante ed estesa rispetto al resto del mondo (con qualche attenuazione solo in questi giorni, a causa delle violente proteste, che ha provocato un immediato rialzo delle Borse). Alibaba (Tab. 1), primo obiettivo dell’attacco di Xi, ha avuto – anche se per ragioni profondamente diverse – un andamento del tutto analogo a quello di Meta. Tencent (Tab. 1) è stata colpita in misura un po’ meno grave, ma è quasi tornata al valore di tre anni fa, dopo un picco prossimo al trilione di $. Pinduoduo e JD.com (Tab. 2), presentano viceversa un forte rialzo, maturato però solo con i rialzi recenti: la prima a marzo di quest’anno era ridiscesa al valore di tre anni fa, dopo la crescita del quasi 500 per cento precedente legata al successo del suo innovativo social commerce, mentre la seconda aveva toccato il suo punto di minimo – a un valore non molto più alto – un anno fa circa.

“Tech allargato”, le differenze fra le diverse imprese

Uno sguardo a quello che ho definito l’”ambito tech allargato” (Tab. 3) evidenzia come, data la natura estremamente variegata dell’ambito stesso, siano più che naturali le differenze fra i diversi gruppi di imprese.

Lasciando da parte il caso Tesla (per l’estrema particolarità del comparto e l’influenza di Elon Musk sulle scelte degli investitori), sono le imprese facenti capo alla filiera dei microprocessori – Nvidia, TSMC, ASML e Samsung nell’ordine – quelle che hanno avuto una crescita della capitalizzazione più elevata: con una successiva discesa quasi nulla nel caso di ASML, data la sua posizione di largest supplier for the semiconductor industry and sole supplier in the world of extreme ultraviolet lithography (EUV) photolithography machines used to manufacture the most advanced chips, più alta per TSMC e Nvidia ma lasciando elevati i tassi di crescita sul triennio (più due terzi per la prima e il triplo per la seconda). Non toccate viceversa dalla bolla pandemica imprese storicamente consolidate come Visa, Mastercard e Walmart, che – con un picco percentualmente minore rispetto allo S&P 500 e una successiva discesa minore o uguale – risultano in lieve crescita sull’arco triennale.

Tech company in Borsa, cosa è accaduto in Italia?

E l’Italia? Dopo la caduta di Telecom Italia, passata (per le tristi vicende e i diversi spolpamenti subiti che tutti conosciamo) dai 65 miliardi di capitalizzazione di fine 2004 (all’epoca poco meno di un quarto di quella di Microsoft) ai 4,5 attuali, la nostra prima impresa (in realtà italo-francese) per market cap, operante nei chip, è ora ST Microelectronics, con un valore di 33 miliardi di $. È seguita da Nexi (Tab. 2), operante nei pagamenti, costruita in anni relativamente recenti mettendo assieme realtà da lungo tempo esistenti per creare un’impresa leader di respiro europeo: 23 miliardi di $ il suo valore nel momento del picco, 11 ora, con una discesa simile a quella di PayPal. Mentre Leonardo, la nostra impresa leader negli armamenti, vale 4,7 miliardi.

Big five: imprese big non solo in un’ottica finanziaria

Le big five, come detto, meritano la qualifica di big non solo per i loro valori di Borsa, che – con l’eccezione di Meta – continuano nonostante le cadute a collocarsi nelle prime cinque posizioni mondiali (solo Saudi Aramco si inserisce al secondo posto), ma anche per i livelli di fatturato e/o utile netto e/o numero di addetti diretti e indiretti.

Nella Tab. 4 ho messo a confronto i quattro dati – market cap, ricavi, utile netto e addetti (diretti) – per le big five, per le due big cinesi, per alcune delle principali imprese dell’ambito tech allargato e per alcune delle principali non tech (intese come imprese che, pur utilizzandole al meglio, non hanno nelle tecnologie digitali un elemento determinante del loro business model): nella fattispecie le due petrolifere Saudi Aramco e Exxon Mobil e le due bancario-finanziario-assicurative Berkshire Hathaway (la società di Warren Baffett) e JPMorgan Chase. Per ciascuno dei quattro parametri è segnalata poi la posizione che l’impresa occupa – fra tutte le quotate a livello mondiale – in relazione a quello specifico parametro.

Apple ad esempio (Tab. 4), oltre ad occupare il primo posto al mondo per market cap, è seconda per utile netto – 99,8 miliardi di $ come somma degli ultimi quattro trimestri (in gergo TTM) – alle spalle solamente di Saudi Aramco, che – approfittando dell’esplosione dei prezzi di gas naturale e petrolio indotta prima dalla ripresa post pandemica ed esaltata poi dall’attacco russo all’Ucraina – ha ora un utile netto dell’ordine dei trecento miliardi. Ed è sesta, sempre fra le quotate, nella classifica per ricavi: alle spalle di Walmart e Amazon e delle tre petrolifere/petrolchimiche Saudi Aramco, PetroChina e Sinopec. È invece oltre il centesimo posto nella classifica per numero di addetti, 164mila, per la scelta storica – mantenendo in casa la progettazione complessiva e la realizzazione del software – di delegare a contract manufacturer asiatici il manufacturing dei suoi prodotti: nella sola iPhone City ad esempio, una città dentro la città a Zhengzhou in Cina (balzata recentemente alla ribalta per le violente proteste per i salari e i lockdown), ci sono ben 300mila persone che lavorano in una fabbrica della taiwanese Foxconn per produrre gli iPhone e altri prodotti di Apple.

Microsoft e Google occupano rispettivamente il terzo e quarto posto per utile netto, ambedue prossime ai 70 miliardi. Ed è ancora pari a 35 miliardi, anche se il futuro come detto appare molto meno roseo, l’utile netto di Meta. Non brillante come redditività Amazon, che però è seconda al mondo fra le quotate per numero di addetti (alle spalle di Walmart) e terza (alle spalle ancora di Walmart e di Saudi Aramco) per ricavi.

Microsoft e Apple occupano anche i due primi posti nella classifica messa a punto dal Drucker Institute – The 250 Best-Managed Companies of 2022 – basata sulla valutazione delle prestazioni in cinque aree: customer satisfaction, employee engagement and development, innovation, social responsibility and financial strength.

E Amazon, seppur scesa in classifica (la customer satisfaction il suo maggiore punto di debolezza, ma criticità anche in relazione alla gestione delle risorse umane e alla responsabilità sociale), occupa l’ottavo posto assoluto. Più arretrate Google e soprattutto Meta.

 

Fig. 3

Big five, i problemi attuali e le prospettive a breve

“Big five: crisi congiunturale o inizio del declino?”, era la domanda posta nel titolo. Una domanda per certi versi malposta. Le big five, ma questo è comune a tutta l’economia mondiale, non stanno attraversando una crisi solamente congiunturale – che pure è presente – ma si devono confrontare con un contesto complessivo in profonda e incessante trasformazione e pieno di incognite. E lo devono fare in una fase della loro vita che definirei di maturità, una fase in cui le loro innovazioni sono sempre meno radicali e in cui quindi – a differenza del passato – dispongono sempre meno di quel contrappeso ai cali generalizzati della domanda che è rappresentato dalla presenza nel portafoglio di output di

  • beni e/o servizi disruptive degli esistenti: come è avvenuto ad esempio con il digital advertising, che per molti anni ha continuato a crescere rubando spazi all’advertising tradizionale, o con l’ecommerce, che dopo una lunga crescita ha avuto una impennata durante la pandemia, o
  • beni e/o servizi con prestazioni prima inesistenti: come nel caso degli smartphone, che presentano però ora miglioramenti sempre più marginali nei nuovi modelli.

La loro situazione di crisi, quale appare soprattutto dai cali nelle capitalizzazioni, è una situazione peraltro che molte altre imprese sognerebbero di avere: perché gli utili, ancorchè previsti in calo, sono come visto (con l’eccezione al momento di Amazon) fra i più alti dell’intera economia mondiale. Pesano però le prospettive: quelle a breve termine, cui il mercato finanziario è usualmente molto sensibile, e quelle – molto più difficili da decifrare ma fonti di inquietudini – su un orizzonte temporale più lontano.

Quali sono le prospettive a breve più problematiche, desumibili dagli warning delle big five stesse in sede di presentazione dei dati trimestrali e/o dalle analisi delle principali società di consulenza strategica o del mondo accademico? Il solo farne una lista è complesso, per gli intrecci fra le diverse voci, ma ci proverò:

  • vi sono innanzitutto problemi di domanda, comuni a una larghissima parte dell’economia e legati all’elevato livello di inflazione e alle misure restrittive poste in atto dalle banche centrali per contrastarla, che colpiscono, nei volumi o anche solo nei prezzi, servizi sinora inattaccabili quali il cloud computing e il digital advertising;
  • vi sono problemi derivanti da una sovrastima – durante la fase pandemica più acuta – delle prospettive di crescita, che hanno portato a eccessi nelle assunzioni e, nel caso ad esempio di Amazon, a un sovradimensionamento delle infrastrutture logistiche: problemi cui Amazon e Meta stanno rispondendo con licenziamenti (10 e 11mila addetti rispettivamente) e Microsoft e Google con un forte rallentamento nelle nuove assunzioni; problemi cui tutte cercano più in generale di rispondere con la chiusura o il ridimensionamento dei business poco profittevoli e degli investimenti a lungo termine meno promettenti e con una molto più forte attenzione al controllo dei costi;
  • vi sono problemi derivanti dai cambiamenti nelle regole del gioco: da quelle recentemente approvate dalla UE con il DMA-Digital Markets Act, volto a ridurre i poteri dei gatekeeper delle grandi piattaforme (le big five in primo luogo) per garantire un più facile accesso alle altre imprese, e con il DSA-Digital Services Act, che obbliga tra l’altro Meta e Google a farsi carico nei loro social (con elevati costi ed elevatissime multe nel caso di inadempienze) dei problemi di misinformazione e incitazione all’odio, a quelle viceversa introdotte da una impresa privata come Apple – che nel futuro verrà quasi certamente seguita da Google (con Android) – per garantire una maggiore privacy agli utenti, che hanno colpito molto duramente (facendo loro mancare informazioni preziose per alimentare il digital advertising) imprese attive nei social come Meta e Snap;
  • vi sono incipienti problemi (ovviamente dal punto di vista della profittabilità) di crescita della concorrenza, per l’entrata in gioco di nuovi attori che si avvalgono di business model diversi: questo è vero, ad esempio, per il digital advertising (Fig. 2), dove vari colossi della grande distribuzione tradizionale, a partire da Walmart, hanno iniziato a seguire l’esempio di Amazon riorganizzando integralmente la raccolta di dati sui loro clienti; è vero per i social, ove TikTok (facente capo alla cinese ByteDance) – con il lancio di un nuovo formato – sta accrescendo continuamente anche in Occidente la sua quota di mercato, ai danni soprattutto di Meta; è vero per l’eCommerce, che ha visto crescere da un lato (soprattutto in Cina e con Pinduoduo tra i protagonisti) il social commerce e dall’altro l’offerta di servizi online per l’accesso all’eCommerce (da parte in primo luogo di Shopify);
  • vi sono problemi (sempre dal punto di vista della profittabilità) derivanti dalla crescita della concorrenza all’interno delle big five, per le invasioni di campo originate dalla frenetica ricerca di nuovi mercati di sbocco: di particolare successo l’ingresso di Amazon (forte dell’enorme mole di dati provenienti dal suo ecommerce) nel digital advertising, storicamente dominato da Google e Facebook; più difficile nel cloud computing – un comparto ad alta intensità di capitale storicamente dominato da Amazon e Microsoft – la vita di Google, tuttora costretta a operare in perdita per acquisire nuovi clienti e raggiungere la massa critica; rimandato a data da definirsi lo scontro fra Meta e Microsoft nel metaverso, in attesa che meglio se ne definiscano struttura e finalità;,
  • vi è una ostilità crescente nei riguardi di nuove acquisizioni da parte delle big five – delle grandi soprattutto ma anche di quelle di entità ridotta se ritenute rilevanti in prospettiva – ed è sempre più elevato il numero di authority antitrust che vogliono dare il loro parere e porre le loro condizioni sulle nuove operazioni di M&A (ben 16 ad esempio per dare il via libera alla fusione fra Essilor e Luxottica); sotto attacco in questo momento è soprattutto Microsoft, per l’acquisizione per 75 miliardi di $ di Activision Blizzard nel settore dei giochi, con la decisione in questi giorni della Federal Trade Commission statunitense di portare la questione nei tribunali;
  • vi è soprattutto per Apple – l’unica delle cinque che vende più beni materiali che beni immateriali e servizi, che ha in Cina la quasi totalità degli stabilimenti di produzione (gestiti da contract manufacturers quali la taiwanese Foxconn) e che realizza in Cina (Fig. 3) un quinto circa del suo fatturato globale – un rischio Cina, che si è tradotto recentemente nella indisponibilità per il lancio natalizio di una quota significativa dei nuovi iPhone14 (a causa dei disordini a Zhengzhou cui ho fatto cenno in precedenza), ma che potrebbe avere un impatto più importante se il confronto fra Stati Uniti e Cina per la supremazia mondiale si radicalizzasse.

Big five, le sfide a medio-lungo termine

Il lungo elenco dei problemi correnti e delle prospettive a breve, visto al punto precedente, contiene già in nuce molti degli scenari, che amplificandosi, potrebbero trasformarsi nel medio-lungo termine in minacce alla permanenza delle big five – o di parte di esse – ai vertici mondiali o addirittura alla loro stessa sopravvivenza.

Dovendo fare una scelta fra i rischi maggiori di provenienza esterna, io ne individuerei tre:

  • la frammentazione dell’economia e della società mondiale e la connessa frammentazione di Internet;
  • l’emergere di nuove tecnologie e/o business model disruptive;
  • la progressiva erosione dei differenziali competitivi.

La frammentazione dell’economia e della società mondiale, con la probabile formazione di due blocchi attorno alle potenze egemoni Stati Uniti e Cina e con la probabile scelta di un numero non piccolo di Paesi di giocare opportunisticamente come battitori liberi, porterebbe da un lato a un forte regresso del processo di globalizzazione, formalmente decollato – con la creazione della WTO-World Trade Organization – quasi trent’anni fa e completatosi all’inizio del secolo con l’entrata nella WTO stessa della Cina soprattutto e del Vietnam. Porterebbe dall’altro, come sta ad esempio accadendo come conseguenza della Brexit, a una Babele delle regole. E i due fenomeni assieme renderebbero sempre più difficile la vita per le imprese multinazionali. Con una ulteriore penalizzazione per le big five, e le multinazionali tech in genere, derivante dalla connessa frammentazione di Internet (peraltro già in crescita).

L’emergere di innovazioni radicali nelle tecnologie e/o nei business model aprirebbe la strada – se non sono esse stesse a introdurle o assumerne il controllo – alla disruption di comparti in cui le big five sono dominanti: lo stesso fenomeno di disruptive innovation che le ha portate ai vertici, vissuto però come potenziali vittime invece che come aggressori. Non è un caso che nel momento di massimo successo il mondo crypto si presentasse all’opinione pubblica come l’unico in grado di abbattere il potere delle big tech. Ma al di là dell’opzione crypto, potrebbe ad esempio essere l’accoppiata intelligenza artificiale-quantum computing a far nascere qualche nuovo campione o a far emergere dal gruppo una delle big five o delle big tech in generale.

La progressiva erosione – una sorta di logoramento – dei differenziali competitivi, anche in assenza di fenomeni di frammentazione o di innovazioni radicali, può nascere per una serie di motivi spesso interagenti fra loro: quali il varo e l’effettiva implementazione, da parte dei governi e/o delle authority, di misure a favore della competizione; il diffondersi delle conoscenze, in assenza di strumenti giuridici robusti di protezione del know-how; l’indebolirsi dei brand al ridursi dei differenziali nelle prestazioni (un problema che ad esempio Apple è riuscita sinora a gestire brillantemente per il suo principale prodotto, qualificando l’iPhone più come un oggetto di alta moda/lusso che non come uno smartphone, analogamente a quanto fanno Ferrari e Porsche nel mondo dell’auto); la saturazione della domanda, come potrebbe ad esempio accadere all’ecommerce nelle aree e nei comparti ove ha una quota più elevata, a fronte di una riconfigurazione innovativa dell’offerta da parte della distribuzione tradizionale.

L’erosione dei differenziali competitivi, come qualunque testo di strategia o di organizzazione insegna, può avere cause anche parzialmente o prevalentemente interne. Le imprese possono perdere innovatività ed efficienza come conseguenza della burocratizzazione che la crescita dimensionale spesso comporta, come frutto dell’autocompiacimento per il successo e della riluttanza ad aprire la strada a quegli stravolgimenti negli equilibri di potere interni che non raramente l’innovazione – soprattutto se radicale – porta con se’.

Una considerazione infine sul perché non ho inserito nella lista dei rischi il possibile cambiamento nei valori della società e nelle abitudini. Non perché non sia importante, lo è, talora in misura determinante. Ma perché a differenza degli altri tre comporta un rischio nel significato più proprio del termine: può avere cioè un impatto negativo ma alternativamente anche positivo.

Big five, ai vertici anche nel futuro o avviate verso il declino?

È la domanda che in molti si fanno, data la loro rilevanza, il loro potere non solo economico ma anche politico, l’impatto in generale che hanno sulla nostra vita di tutti i giorni: dagli smartphone che interconnettono fra loro più di 4 miliardi di persone (la metà dell’umanità), ai social che accanto agli aspetti positivi sono sempre più spesso utilizzati come strumenti per diffondere fake news e pilotare le scelte elettorali e sono sempre più temuti per l’influenza negativa che essi possono esercitare sui giovani e sui soggetti mentalmente più fragili, all’ecommerce che a fronte delle indubbie comodità che ci garantisce ha effetti sulla composizione sociale e sugli assetti urbanistici. È una domanda cui ritengo impossibile rispondere, data la molteplicità e complessità dei fattori in gioco, per cui mi limiterò ad alcune riflessioni generali.

Che cosa ci dicono le statistiche innanzitutto? Ci mostrano come sia in continuo calo l’aspettativa di vita delle imprese in generale, come siano molto rari i casi di imprese che riescano a rimanere ai vertici per lunghi archi temporali e come le cadute possano avvenire in tempi anche molto ristretti, a fronte di eventi che mettano in crisi i punti di forza delle imprese stesse; mostrano anche – e se ne è fatto cenno in precedenza – come l’abitudine al successo riduca spesso la capacità di reazione a eventi sismici inattesi. Un caso interessante è quello di General Electric, che è riuscita a mantenersi ai vertici di Borsa mondiali per quasi un secolo, adattando le sue strategie ai cambiamenti nel contesto, per poi rimanere travolta (vale ora meno di 100 miliardi di $) dalla grande crisi iniziata nel 2008, che l’ha colpita in quello che era diventato il suo maggiore punto di forza – la finanza – e il grande motivo di ammirazione per il CEO Jack Welch che aveva effettuato la scelta strategica. È interessante il caso di Ibm, colpita la prima volta dal passaggio dai mainframe ai PC e ai server, cui (seppur con qualche fatica) era riuscita a reagire positivamente, e la seconda dall’avvento di Internet: è tuttora una impresa interessante e volta all’innovazione, ma ben lontana dall’importanza che aveva nella seconda metà del secolo scorso. Apple è, tra le big five, quella che si è trovata almeno due volte in situazioni critiche e ha saputo reagire con virate strategiche di grande rilevanza: quando alle soglie del fallimento ha richiamato Steve Jobs, aprendo la strada alla fase delle grandi innovazioni radicali (iPhone in primo luogo), su cui tuttora essa in larga parte vive; quando, alla morte di Steve Job, Tim Cook ha scelto viceversa, ma con grande successo, la strada della massima valorizzazione dell’esistente, accompagnata da continue innovazioni ma sostanzialmente di natura incrementale,

Quali le (deboli) indicazioni che ne traggo? La prima è che ben difficilmente le big five potranno rimanere ai vertici senza virate strategiche importanti: virate necessarie quando la continuità non paga più, ma piene di incognite (come le attuali difficoltà di Meta mostrano). La seconda è che probabilmente le big tech/ big five verranno sempre meno viste come una sorta di aggregato omogeneo, fino a far sparire la stessa denominazione: perché le virate strategiche avranno presumibilmente direzioni diverse e perché anche molto diversi probabilmente saranno i gradi di successo.

NOTE ================

Tab. 1 – I NUMERI DELLA BOLLA PANDEMICA: LE BIG FIVE STATUNITENSI E LE DUE BIG CINESI

Fonte: elaborazioni su dati CompaniesMarketCap.com e FT. Note: (1) Le imprese sono elencate in ordine decrescente di capitalizzazione – market cap – attuale (30 novembre 2022) e il numero che le precede indica la loro posizione nella classifica di tutte le imprese quotate a livello mondiale stilata da CompaniesMarketCap.com; sono indicate con colori diversi le big five statunitensi e le big cinesi; (2) Le prime tre colonne riportano le capitalizzazioni in miliardi di $ delle 7 imprese prese in considerazione in tre momenti diversi: ora (30 novembre 2022),  nel picco durante la pandemia (in piccolo la data del picco), prima della pandemia e più precisamente tre anni fa  (29 novembre 2018); (3) Le seconde tre colonne vogliono misurare la consistenza e il profilo della bolla: nella prima la formazione della bolla in termini di crescita percentuale massima, ossia il rapporto fra il valore di picco e il valore pre-pandemia (convenzionalmente quello di tre anni fa); nella seconda lo sgonfiamento della bolla in termini di decremento rispetto al massimo raggiunto, ossia il rapporto fra il valore attuale e quello di picco; nella terza – come sintesi – il rapporto fra il valore attuale e quello pre-pandemico di tre anni fa; (4) La dinamica del valore per la singola impresa – rappresentata attraverso i tre dati percentuali di formazione della bolla, sgonfiamento e sintesi  – è posta a raffronto con quella dello S&P 500, rappresentativo dell’intera economia statunitense (comparto petrolifero incluso); l’uso del grassetto è riservato alle crescite superiori rispetto allo S&P 500 nella prima e nella terza colonna, alle decrescite superiori nella seconda; (5) A mero titolo di paragone degli ordini di grandezza l’italo-francese EssilorLuxottica vale ora 80 miliardi di $, dopo un picco a  94 il 31dicembre 2021, Enel 53 miliardi (103 il 22 gennaio 2021), Eni 52, (dopo essere viceversa scesa a 27 il 15 ottobre 2020) e a livello  europeo LVMH vale 360 miliardi di $ (415 il 31 dicembre 2021).

Tab. 2 – I NUMERI DELLA BOLLA PANDEMICA: LE BIG TECH “DI SECONDA FILA”

Fonte: elaborazioni su dati CompaniesMarketCap.com e FT. Note: (1) Valgono le stesse indicazioni fornite nella Tab. 1; (2) Per i criteri di scelta delle imprese si veda il testo.

Tab. 3 – I NUMERI DELLA BOLLA PANDEMICA: L’”AMBITO TECH ALLARGATO”

Fonte: elaborazioni su dati CompaniesMarketCap.com e FT. Note: (1) Valgono le stesse indicazioni fornite nella Tab. 1; (2) Per i criteri di scelta delle imprese si veda il testo.

Tab. 4 – VALORI DI BORSA E DATI REALI: LE BIG FIVE NON SONO BIG SOLO IN UN’OTTICA FINANZIARIA

Fonte: elaborazioni su dati CompaniesMarketCap.com e FT. Nota: per ciascuna voce è riportata anche, in piccolo, la posizione occupata dall’impresa per quella voce fra tutte le mondiali quotate. Apple ad esempio, prima per capitalizzazione, è seconda per utile netto alle spalle di Saudi Aramco e davanti a Microsoft e Google, è sesta per ricavi e oltre il centesimo posto per numero di addetti (dato l’ampio ricorso all’outsourcing per il manufacturing)

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Umberto Bertelè
Umberto Bertelè

Professore emerito al Politecnico di Milano, è autore di "Strategia" (edizioni Egea), libro disponibile nella seconda edizione, focalizzata sulla trasformazione digitale.

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