“Il fatturato derivato dalla pubblicità online che si spartiscono Google, i social network e poche altre aziende californiane equivale al Pil della Svezia. Ed è una cifra che si ripete ogni anno. Capite di cosa stiamo parlando quando parliamo del data business?”. Non potrebbe essere più chiaro Luciano Floridi, filosofo e docente di logica ed epistemologia all’Università di Oxford, noto in tutto il mondo per il suo pensiero sulla filosofia dell’informazione e l’etica informatica. Per questo i suoi speech, come quella recentemente tenuta davanti a una platea di studenti all’Università Lumsa di Roma dal titolo “The forgetful memory of the digital (or why we need libraries more, not less”, sono sempre piccoli eventi. “La labile memoria del digitale o sul perché abbiamo bisogno di più biblioteche e non meno” è stata un’altra occasione per toccare quello cheprobabilmente è il tema più importante dell’era contemporanea: il business dell’informazione e le sue implicazioni socio-politiche. E che sta molto a cuore al professore Floridi.
Sono le cifre a indicare la portata economica dei data: “Dai graffiti preistorici nelle caverne fino al 2013 l’uomo ha prodotto 4,4 ZB di dati. Dal 2013 al 2020 si prevede che ne produrremo 44 ZB” scrive Floridi nelle sue slide di presentazione. Per capire a cosa corrisponda questo dato si deve considerare che uno ZB (peraltro uno standard non ancora definito dalla IEC, commissione elettrotecnica internazionale, Ndr) corrisponde più o meno a 180 milioni di volte i dati conservati nella Biblioteca del Congresso di Washington. “Sono dati della Cisco, un’azienda che costruisce il suo business sul networking, quindi probabilmente non sono del tutto veritieri. – puntualizza Floridi – Ma anche se dovessero essere ribassati del 20-30% saremmo comunque davanti a una mole di informazioni imponderabile”. Nel 2012 sono stati prodotti più dati che nei precedenti 5.000 anni e il 90% dell’informazione di cui disponiamo è stata creata negli ultimi due anni. Basta questo per spiegare quel senso di disorientamento che tutti noi abbiamo quando pensiamo alla velocità e alla mole di notizie con cui ci confrontiamo ogni giorno? Basta questo per assegnare ai data la palma di bene prezioso del terzo millennio? Quello che forse ancora non è del tutto chiaro è il meccanismo d’impresa che si nasconde dietro: “Le big companies hanno il monopolio del controllo sulle domande che generano informazione sulle cose. E lo hanno ottenuto dirottando l’economia del dono: io regalo le informazioni ai clienti, anzi agli utenti – precisa Floridi – perché in cambio ottengo i loro dati. E sono quelli i beni che mi fanno guadagnare”. Questo meccanismo influisce sulle nostre società perché le rende incerte: nelle società liberali noi possiamo porre domande, ma le risposte che otteniamo sono spesso molteplici e incerte, perché la loro gestione è monopolizzata dai motori di ricerca, ovvero da Google. Dice Floridi, parafrasando Orwell e il suo 1984: “Chi controlla le domande dà forma alle risposte e chi controlla le risposte dà forma alla realtà”.
Qual è quindi il tassello mancante per la costruzione di una società democratica e ben informata? “Le biblioteche pubbliche, ossia quegli strumenti democratici a cui i cittadini hanno accesso per controllare che l’esercizio del potere sia giusto”. Questa figura istituzionale però si è indebolita nel tempo, perché il potere politico ha delegato alle big companies la gestione dell’accesso alle informazioni, “o per miopia o per un calcolo politico in cui non rientra la necessità di fornire un contro bilanciamento” continua Floridi. A sottolineare il coinvolgimento delle istituzioni pubbliche in questo processo, un altro dato: “Negli Stati Uniti l’attività di lobbismo sui due principali partiti politici è legale e trasparente. Non è stato quindi difficile scoprire che negli ultimi due semestri Google ha speso per questa attività più della Lockheed Martin e di Big Pharma, due storici colossi dell’economia a stelle e strisce. Investono così tanto per tenersi buono il governo – continua Floridi – perché sanno di avere i piedi d’argilla”.
Anche i colossi dell’ICT hanno infatti punti deboli, principalmente due: in primis, se il loro monopolio sulla gestione dei dati venisse infranto con un’apertura vera del mercato, o se il contro bilanciamento delle biblioteche pubbliche diventasse più forte, la loro posizione dominante verrebbe meno. E poi c’è la natura stessa dei dati: “Quando la cultura si tramandava oralmente si diceva che verba volant, ma anche i digita non sono così saldi. – scherza Floridi – In realtà noi stiamo vivendo una preistoria digitale, perché i data sono per loro natura volatili, riscrivibili, smaterializzabili. Dal 2007 ad oggi la forbice fra i dati prodotti e la capacità di archiviazione mondiale va costantemente allargandosi. Ma nessuno sembra preoccuparsene”.
Il problema non è solo di quantità, ma anche di qualità dell’informazione e – ancora una volta – di sviluppo di società democratiche: “Una cultura sviluppata non si preoccupa soltanto di accumulare dati, ma ne ha anche cura: li analizza, li inserisce in un contesto, li interpreta. Oggi invece la velocità dell’informazione cancella e riscrive in un ciclo continuo. Non è un caso, purtroppo, che i due mestieri oggi a maggior rischio di estinzione siano i bibliotecari e i giornalisti. La storia rischia di essere ridotta a un perenne hic et nunc e noi – conclude Floridi – potremmo finire imprigionati in un perenne ‘adesso'”.