Le previsioni sul futuro in ambito macro-economico sono decisamente le più difficili, anche quando a cimentarsi sono i grandi esperti. E ciò è tanto più vero in contesti storici ed economici complessi come quello attuale, dove a fronte di paesi che continuano a generare ricchezza quali per esempio gli Stati Uniti d’America (con 2,5% del PIL nel 2019 e 1,8% nel 2020), ne abbiamo altri come la vecchia Europa che sta già rallentando.
Non essendo certo questo il mio campo, mi limito a riportare quanto leggo sui giornali: la Germania prevede sul 2019 una crescita del PIL di solo 1% (rivisto al ribasso alla precedente stima di ottobre del 1,8%), ossia il peggiore anno dal 2013; in Italia, dove siamo ormai nel limbo della “recessione tecnica” a causa di due trimestri consecutivi di calo del PIL, il Fondo Monetario Internazionale ha tagliato allo 0,6% rispetto la stima dell’1% di ottobre scorso, analogamente a quanto fatto da Banca d’Italia. Con la Commissione Europea che porta la sua stima all’0,2%! La Cina proietta invece un bel 6,3% e i Paesi africani o sud asiatici che prevedono una crescita oltre il 5%.
La crescita degli alternative investment
In questo quadro incerto, dove il principale indicatore che misura la capacità di un paese di produrre ricchezza non genera entusiasmi, una buona notizia per gli investitori viene dalla crescita prevista per gli alternative investment. Un recente report di Prequin, basato su interviste a più di 120 investitori istituzionali e 300 gestori di portafoglio di tutto il mondo, prevede una crescita impressionante dell’industria globale dei cosiddetti asset alternativi.
Si parla infatti della strabiliante cifra di 14.000 miliardi di dollari nel 2023, con un tasso di crescita del 59% rispetto al 2017, raccolti e gestiti da 34.000 società di investimento e gestori attivi globalmente (in crescita del 21% rispetto al 2018).
Diverse le motivazioni che stanno dietro queste stime:
- innanzitutto le performance registrate dai fondi privati rispetto per esempio ai mercati quotati;
- le tecnologie, soprattutto blockchain, che faciliteranno il consolidamento dei network e aiuteranno investitori e fund manager ad investire e monitorare i propri portafogli, riducendo così i costi rispetto ai mercati quotati;
- la volontà crescente degli investitori di controllare i propri investimenti, maggiormente realizzabile con i “private capital”;
- l’espansione dei mercati emergenti, Cina in primo luogo, con i loro tassi di crescita del PIL.
Nel report di Prequin tutte le 5 asset class sono considerate in crescita: Risorse naturali, Private Debt, Infrastrutture, Private Equity, Immobiliare, Fondi Hedge. Il Private Equity arriverà nel 2023 a pesare ben 4.900 miliardi di dollari, con un +58% rispetto al 2017.
Crescono le masse in gestione negli alternative asset come dicevo in primo luogo perchè hanno saputo confermare nel tempo buoni rendimenti per gli investitori. Per i “private capital funds” con vintage 2008 in avanti, il rendimento netto (cosiddetto Net IRR) è stato in media superiore al 10%.
Italia, l’opportunità dei PIR e del venture capital
Nel report si legge anche che la composizione media di portafoglio di un investitore individuale americano prevede un 2% allocato sugli investimenti alternativi. Questo numero mi porta all’Italia e al “magic number” del 3,5% dei PIR. Uno strumento che se opportunamente declinato potrebbe consentire al nostro Paese di avvicinarsi al trend in atto a livello internazionale sugli alternative asset, in un contesto storico in cui gli investitori – a fronte della crescente difficoltà di ottenere rendimenti stabili nel medio lungo periodo – stanno aumentando decisamente il peso degli asset illiquidi e più in generale degli investimenti alternativi quali appunti i fondi di venture capital e private equity.
Ma andiamo con ordine: i PIR sono i piani individuali di risparmio introdotti in Italia dalla legge di bilancio 2017, al fine di incentivare gli investimenti dei piccoli investitori nella cosiddetta economia reale, garantendo un’esenzione fiscale a determinate condizioni. In breve: i PIR sono riservati alle persone fisiche, debbono essere mantenuti per 5 anni, non possono superare i 30.000 l’anno e i 150.000 di investimento in totale per singolo investitore. In cambio, si ha un abbattimento totale di tutto il carico fiscale, ossia non si pagano tasse su capital gain, dividendi, successioni o donazioni. Una grande novità per l’Italia, ovviamente già molto diffusa da anni all’estero, che ha l’obiettivo di portare capitali nella misura di almeno il 70% in imprese italiane, del cui totale il 30% in imprese diverse da quelle quotate al listino principale FTSE Mib. In sostanza capitali che affluiscono obbligatoriamente verso aziende più piccole, come quelle quotate nei segmenti a media capitalizzazione, Star o AIM.
Gli effetti positivi della legge di bilancio su PIR e venture capital
Ma la grande novità sta nella legge di bilancio 2019, dove viene previsto l’obbligo per i nuovi PIR di investire il 3,5% in fondi di venture capital, oltre ad un’altro 3,5% in aziende quotate all’AIM. Non pare vero agli operatori di venture capital in Italia, da sempre in difficoltà sul lato del fund raising per la cronica carenza di investitori istituzionali in grado di alimentare costantemente il mercato degli investimenti in capitale di rischio come da anni accade all’estero.
Nel 2017 i PIR italiani hanno raccolto ben 11 miliardi, scesi di molto nel 2018 a 4,2 miliardi; le stime degli operatori nel 2019 dicono di una raccolta ben inferiore, pari a 2,8 miliardi. Molto però dipenderà dai decreti attuativi che a breve verranno pubblicati. La speranza dei gestori dei cosiddetti fondi aperti che gestiscono i PIR è che tali vincoli vengano ammorbiditi, mentre l’aspettativa della nostra piccola ma agitata community dei venture capital italiani è che tale impianto normativo venga confermato. Ciò consentirebbe infatti di far arrivare capitali importanti all’industria degli alternative asset, il che potrebbe contribuire ad aumentare la numerosità di operatori presenti. E l’equazione per me è quantomai semplice: più capitali per il fund raising = nuovi operatori che nascono = più capitali per investire = maggior numero di investimenti in startup = maggiori probabilità di exit con ritorni agli investitori.
Nel 2018 il “Ftse Italia PIR PMI All Index” ha segnato una flessione di circa il 20%, facendo peggio dell’indice Ftse Mib che ha registrato una flessione del 15%. C’è chi ritiene quindi che inserire troppi asset illiquidi in un fondo aperto non sia nè corretto su un piano concettuale né in linea con i profili di rischio Mifid. E c’è chi sostiene che i PIR vadano valutati nel lungo periodo, con benefici ottenibili non in 5 anni ma in 30/40 anni. Ma se nel lungo periodo gli alternative asset come il venture capital e il private equity genera ritorni, come ci dice il Report Prequin, allora ben venga la destinazione per legge del 3,5% dei PIR in fondi di investimento in venture capital. Io continuo ad essere ottimista sul futuro di questa industry in Italia.
Stay tuned….