“Sono un apolide digitale”, dice Alberto Onetti dalla sua casa di Pavia. Per la pandemia da quasi un anno ha dovuto smettere di “pendolare” con San Francisco ma “la maggioranza delle mie call non sono in italiano”. Dal 2009 è presidente di Mind The Bridge, creata con Marco Marinucci, e dal 2014 è alla guida di Startup Europe Partnership, piattaforma di open innovation voluta dalla Commissione Europea.
Imprenditore (ha fondato Funambol con Fabrizio Capobianco e Stefano Fornari), professore (insegna all’Università dell’Insubria) e consulente (con Mind the Bridge che dalla California ha aperto sedi in tutta Europa e Asia ed è diventata la base di atterraggio nella Silicon Valley delle imprese che vogliono conoscere la frontiera dell’innovazione ), Alberto Onetti presidia il ponte fra le grandi aziende e le startup, specie quando diventano scaleup. E lo fa da quando in Italia di open innovation si parlava poco o nulla.
Adesso è il momento, perché “le startup sono gli anticorpi contro il virus che fiacca l’Italia – la crescita zero – e la crema anti-age per le aziende alle prese con la trasformazione digitale”, è l’immagine proposta da Alberto Onetti, che dalla prossima settimana su EconomyUp racconterà le tendenze e le best practice dell’open innovation a livello internazionale in un nuovo blog dal titolo “Open World”, con lo sguardo di un esterno che conosce bene l’ecosistema italiano.
Alberto, come stiamo a innovazione in Italia?
Molto meglio ma non benissimo. Nel mondo dell’innovazione non basta inserire una moneta per vedere partire la giostra. Devi investire, seminare e poi arriva il raccolto. Anche le ricerche che facciamo con Mind the Bridge rappresentano la punta di un iceberg che è il risultato di stratificazioni accumulatesi nel corso degli ultimi anni.
LE TECH SCALEUP IN EUROPA
L’ultima indagine di Mind the Bridge è sulle scaleup europee e quindi anche su quelle italiane (è stata realizzata in collaborazione con AWS e si può scaricare qui). Che cosa emerge dall’acqua?
Io vedo due trend cristallini. Il primo: in Italia c’è un indubbio percorso di crescita. Se guardiamo solo i nostri dati, dobbiamo dire che stiamo andando decisamente bene. Fino al 2011 il sistema delle scaleup italiane praticamente non esisteva e gli investimenti erano minimi. Poi c’è stata una crescita per tre, quindi tra il 2018 e il 2020 i 300 milioni sono diventati circa 500. Le scaleup erano una ventina, adesso sono circa oltre 200 e solo nel 2020 sono aumentate di 50. Quindi siamo di fronte a un trend di crescita, ma non basta.
Perché non basta?
Qui c’è il secondo trend. Il problema è quando confronti l’ecosistema italiano con il resto del mondo. Nel 2019 sono stati investiti 400 milioni. Bene, un bel progresso rispetto all’anno precedente. Peccato che in Spagna siano a 1miliardo e 100, in Francia a 4,7 per non parlare del Regno Unito. L’Italia sta crescendo bene però è partita più tardi e sta andando avanti a una velocità molto minore rispetto a tanti altri Paesi. La Germania ha 10 volte in più di capitale immobilizzato per l’innovazione. In Israele ci sono oltre duemila scaleup! Visto il ritardo accumulato, con questa velocità di crociera ci sono poche possibilità di avvicinarsi.
Quindi la partita è persa?
No, non dico questo e non lo penso. Negli ultimi anni sono successe due cose importanti: il lancio del Fondo Nazionale Innovazione e di EneaTech. Cassa Depositi e Prestiti nel corso degli ultimi 24 mesi ha messo in campo una serie di azioni strutturate per supportare l’ecosistema. Sarebbe illusorio pensare che si avranno subito dei risultati ma sta aumentando la forza e l’intensità della semina. Ci sarà una dispersione, ma più semini più raccoglie. EneaTech poi rappresenta un importante sostegno al trasferimento tecnologico.
Fondo Nazionale Innovazione ed Enea Tech valgono per l’ecosistema circa circa 1 miliardo e mezzo e in più anni. Basterà per aumentare la velocità di crociera e colmare il gap?
No, non può bastare ma sono soldi ben spesi. Se solo mettessimo 300 milioni in un sistema che ne ha investito circa 500, vorrebbe dire un incremento di oltre il 50%. Questo è il bicchiere mezzo pieno ma certamente non ci permetterà di raggiungere la Spagna e rischiamo di essere sorpassati dal Portogallo. C’è però un altro dato da non sottovalutare…
Quale?
Se si vanno a guardare il fatturato e il numero di dipendenti delle 228 scaleup a fine 2019, si scopre un comparto economico dove lavorano circa 13mila persone con un giro d’affari di circa 2,2 miliardi all’anno, quasi lo 0,1% del PIL italiano che non è poca roba in un momento in cui si attende un calo di circa il 9%. Se si tiene conto che nel 2020 le scaleup sono aumentate, così come il fatturato, emerge quindi un sistema che cresce in modo anticongiunturale e non lineare. Per questo le startup, e soprattutto le scaleup, sono gli anticorpi necessari, potremmo dire il vaccino, per il virus che fiacca l’Italia che, ormai dovremmo saperlo, è la crescita zero.
Quindi, tutto quello che si fa con e per le startup è utile?
Sì, penso di sì. Perché noi vediamo l’iceberg ma sotto il pelo dell’acqua c’è un gran movimento di tentativi, ambizioni, fallimenti, prove, acceleratori, abilitatori e tanti altri soggetti che si impegnano per lo sviluppo di una nuova imprenditorialità italiana. Tutto ciò dal punto di vista culturale ha un grandissimo valore.
Le aziende italiane lo hanno capito? Credono nell’open innovation?
Si, lo hanno capito. Le startup per le aziende sono una crema anti-age che non sanno ancora usare bene. Nell’open innovation in Italia c’è un player che è partito cinque anni fa sul serio, è un benchmark a livello internazionale e viene visto da startup e scaleup con rispetto. SI chiama Enel e non a caso sta ottenendo riconoscimenti internazionali. Tutto il resto del sistema industriale paga il fatto che è composto da poche grandi imprese, rispetto a quello francese o tedesco. Quindi il sistema italiano delle imprese è gracile ed è partito tardi. Molte aziende stanno cominciando a lavorare seriamente ma per farlo bene serve tempo. L’onda dell’open innovation sta salendo anche in Italia ma, attenzione, non è che il resto del mondo sta a guardare. Anche qui c’è un ritardo da colmare per un sistema fatto soprattutto da PMI.
L’open innovation non è adatta alle PMI?
Le PMI hanno un problema di dimensioni che rende più difficile concentrarsi su attività non immediatamente operative. Però se decidono di farlo, riescono a ottenere risultati in tempi più brevi delle grandi aziende, perché sono più flessibili e veloci. Ma bisogna dire che, statisticamente, la grande azienda con capacità di scala può investire di più e meglio sull’open innovation.
Fanno più fatica le aziende a lavorare con le startup o viceversa?
Tutte e due. Le startup buone sono di solito iperselettive, fiutano la fuffa a cento chilometri di distanza e sono quindi difficili da raggiungere. Le grandi aziende d’altro canto sono animali estremamenente complicati, per quanto stiano migliorando. Ci sono troppe porte, conta ancora molto la politica intesa come l’attenzione agli equilibri di potere e la voglia di prendersi un rischio è poco diffusa. Si preferisce nel dubbio rimandare. Due mondi quindi difficile da far dialogare. Per questo ci vuole olio e un gran lavoro di mediazione culturale..
Per chiudere. Che cosa racconterai in Open World su EconomyUp?
Cercherò di dare una prospettiva su un tema oggi di gran moda, che quindi rischia di non essere compreso, portando un’esperienza specifica e una prospettiva esterna. Io vedo il rischio in Italia di essere autoreferenziali quando sta aumentando il rumore. Cercherò di dare uno sguardo dall’esterno, perché da buon apolide digitale, nonostante il lockdown, io sono sono sempre in viaggio.