Management

1. Il design thinking e i rischi dell’innovazione prêt-à-porter

Il metodo di progettazione di prodotti e processi che mette al centro le persone e la risoluzione dei loro problemi è diventato molto popolare: sempre più aziende e società di consulenza organizzano hackathon, challenge e corsi per insegnarlo. Ma questo approccio non va in profondità e non aiuta le organizzazioni complesse

Pubblicato il 26 Mag 2017

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Il design thinking va di moda. Tantissimo. Solo qualche anno fa era un’attività per consulenti iper-specializzati pagati a peso d’oro. Oggi, non c’è azienda o società di consulenza che non organizzi workshop ed eventi a base di post-it, pennarelli colorati, personas, empathy map, customer journey e via di seguito. Il motivo di tanta popolarità va di pari passo con la necessità di innovare e di trasformare digitalmente prodotti e processi. Per farlo, occorre progettare e il design thinking offre un metodo estremamente efficace di progettazione di prodotti e processi che mette al centro le persone e la risoluzione dei loro problemi. Esattamente quello che deve fare ogni azienda oggi per innovare: partire dalla comprensione degli individui (clienti, dipendenti, partner e via di seguito), fare leva sulle tecnologie digitali, chiedersi come andare oltre la burocrazia, i processi stantii, i vincoli tecnici e organizzativi.

In più – e questo rappresenta un potenziale problema – il design thinking ha molti degli ingredienti tipici di quelle attività che alcuni manager chiamano una quick win: i metodi e gli strumenti sono facili da apprendere e sembrano altrettanto facili da usare; non sono richieste le competenze tecniche che invece entrano in campo quando si va oltre l’esplorazione di un problema e si passa alla progettazione vera e propria; il risultato è rappresentato da prototipi di carta a bassa fedeltà che chiunque può realizzare. Un risultato visibile e facilmente comunicabile a basso costo.

La ricerca della quick win ha generato un vero e proprio filone di iniziative che potremmo chiamare innovazione prêt-à-porter e che, oltre alle attività ispirate al design thinking, include gli hackathon, le challenge per le startup, i corsi per diventare startupper (sic!), i programmi di mentoring e tante altre iniziative partorite dalla fervida mente di società di consulenza e formazione. Proprio come la moda, si tratta di modelli e taglie standard a prezzo contenuto con un marchio ben in vista. È inutile dire che questo approccio all’innovazione difficilmente migliora la capacità di un’azienda di tenere il passo con una concorrenza che produce soluzioni radicalmente nuove grazie a tecnologie sempre più sofisticate e a basso costo.

Il rischio che corrono le aziende è perdere l’occasione di usare metodi come il design thinking, la lean startup o l’open innovation come leva per cambiare il modo con cui l’azienda affronta il cambiamento e sperimenta prodotti e processi che rappresentano il suo futuro. In questo contesto, è necessario chiedersi come si fa a introdurre una mentalità da progettista in un’organizzazione complessa andando oltre la logica dell’innovazione prêt-à-porter? Ovviamente non esiste una risposta univoca ed occorre sottolineare che ogni strategia deve fare i conti con la cultura dell’azienda, la qualità delle persone, i modelli organizzativi, il mercato in cui opera l’impresa. Sono tutti fattori che concorrono a determinare l’identità di un’organizzazione e la sua capacità di metabolizzare con successo pratiche come il design thinking. Tenendo conto di questa premessa, vorrei provare a delineare un’ipotesi di lavoro si basa su tre punti: un luogo simbolico, un team di facilitatori e tante spintarelle. (segue – Questo è il primo di tre articoli dedicati al design thinking)

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