Nel linguaggio economico, con il termine «spillover» si fa riferimento a tutte quelle esternalità (positive o negative) scaturite da comportamenti e attività antecedenti messe in atto da imprese o da singoli individui. Un fenomeno assai diffuso nel mondo dell’innovazione che si manifesta quando un’attività svolta in una determinata area e con un preciso scopo produce un conseguente impatto – che eccede le intenzioni iniziali – sullo spazio circostante, la società e l’economia nel suo complesso, grazie a un surplus di concetti, idee, competenze, conoscenze e capitali. Tali «traboccamenti» possono naturalmente anche essere programmati e intenzionali, oltre a generare alle volte effetti negativi; tuttavia, nella maggior parte dei casi, avvengono in maniera spontanea, facendo fluire inconsapevolmente una moltitudine di benefici che travalicano i confini del perimetro aziendale di provenienza.
Per praticità, si è soliti suddividere gli spillover in tre principali macro categorie: knowledge spillovers, industry spillovers e network spillovers.
Rientrano nel primo gruppo tutti quei casi aziendali in cui nuove idee, prodotti e tecnologie, sviluppate all’interno dei dipartimenti di R&S di imprese ed istituzioni, vengono applicate in maniera proficua anche in altri ambiti, generando ricadute positive in termini di produttività e innovazione. Questa tipologia di spillover si basano sull’assunto secondo cui la conoscenza, una volta originata, è difficile da contenere e si può diffondere, apportando benefici ad altri che si mostrano accorti e capaci di riconoscerne il potenziale.
Si può invece parlare di industry spillovers quando beni e servizi brevettati e commercializzati da organizzazioni di un determinato settore incrementano la domanda di prodotti complementari sviluppati in altri campi: ad esempio l’ampia circolazione di contenuti digitali provoca un aumento della domanda di prodotti tecnologici come gli smartphone.
Sotto la dicitura «network spillovers» troviamo, infine, i traboccamenti di conoscenze che avvengono all’interno di un distretto industriale, dove l’alta concentrazione geografica di realtà imprenditoriali, spesso accompagnata da una costruttiva varietà settoriale, contribuisce a stimolare l’innovazione e la crescita delle stesse, attraverso processi di contaminazione di idee fra comparti produttivi differenti. Nello specifico, se ogni azienda locale produce esternalità positive, che possono essere trasferite alle altre imprese operanti sullo stesso territorio, si creano i presupposti per un significativo sviluppo economico del tessuto industriale di quella particolare area.
Lo spillover è strettamente correlato al paradigma dell’Open Innovation teorizzato da Henry Chesbrough. Il modello di innovazione individuato dall’economista californiano ha, infatti, dato concretezza e gestione al concetto di spillover, che viene nella maggior parte dei casi inquadrato come conseguenza casuale positiva di determinati fenomeni aziendali. Parafrasando la definizione di Chesbrough, gli spillover possono essere considerati dei veri e propri flussi di conoscenza in entrata e in uscita, facilmente governabili attraverso questo virtuoso approccio all’innovazione che, come sappiamo, implica proprio un’apertura a soluzioni e risorse esterne ai confini dell’impresa. D’altronde l’obiettivo di questi due processi è il medesimo: la generazione di nuova conoscenza.