Dopo tutti questi anni trascorsi a incontrare gli startupper italiani e a investire nelle loro idee sono giunto a una conclusione: è piuttosto difficile che le startup tecnologiche del nostro Paese, attive nei settori ICT e Medtech (ovvero quelli sui quali puntano i principali investitori italiani), possano crescere al punto tale da diventare aziende globali. Idem per quanto riguarda i loro imprenditori.
Nell’ipotesi più probabile, non appena il loro prodotto o servizio andrà bene verranno acquisite da qualche player più grande oppure dovranno trasferirsi all’estero.
Ma allora dove investire? Dove cercare gli imprenditori in grado di far crescere le proprie aziende, renderle scalabili, avviare una strategia di internazionalizzazione e quindi renderle parte integrante del nuovo tessuto imprenditoriale della nostra economia?
Per curiosità sono andato a ricercare nel vocabolario il significato della parola innovazione. Non è necessariamente collegato alla tecnologia, ma significa “introduzione di sistemi e criteri nuovi”, ovvero, in pratica, riuscire a fare meglio quello che già si fa.
È per questo che io credo si debba tornare alle origini. Ricordate le famose 4 A del Made in Italy? Alimentare, Abbigliamento, Automazione, Arredamento (e, aggiungerei io, design)? Sono questi, a mio parere, i settori sui quali investire. Per tre buoni motivi:
1. Sono i settori che registrano i maggiori tassi di esportazione (peraltro in crescita) e nei quali all’Italia viene riconosciuta una posizione di leadership.
2. Esistono filiere già consolidate che facilitano la crescita di progetti in questi ambiti.
3. In tali settori l’Italia è in grado di offrire capacità manageriali e creative senza essere costretta ad importarle dall’estero.
Spesso si ricorda con disappunto che in Italia ci sono pochi investitori. La verità è che gli investitori che ci sono si concentrano sostanzialmente su investimenti nell’Information & Communication Technology e nel Medtech. Se oggi uno startupper si mette alla ricerca di finanziamenti, troverà un parterre di venture capitalist specializzati nei soliti settori. Non dico che sia una cosa sbagliata, ma sono convinto che, se spostassimo gli investimenti verso comparti più tradizionalmente rappresentativi delle capacità e delle competenze del Made in Italy, si potrebbero raccogliere cifre di grandezza superiore.
D’ altra parte il solo unicorno italiano (startup la cui valorizzazione sul mercato ha superato il miliardo di euro) è una piattaforma di e-commerce nel settore della moda che si è sviluppata sia per la bravura del suo fondatore, sia grazie al contesto della filiera in cui era inserito.
Una recente ricerca ha evidenziato che, su 400mila startup nate tra il 2010 ed il 2015, sono emersi 100 unicorni nel mondo.
In Italia stimiamo che esistano circa 10mila startup innovative, ritenendo che al Registro delle imprese del Ministero dello Sviluppo economico ne siano iscritte solo la metà. Quindi, potenzialmente, da questo magma di giovani società dovrebbero emergere prima o poi, in base a semplici calcoli statistici, almeno 2 unicorni (o anche soltanto uno, considerando lo scenario economico italiano).
Ebbene, proviamo a immaginare in quale settore un’impresa del genere possa nascere e svilupparsi. A mio parere esiste già una società italiana che si occupa di food, è nata a Torino, ha trovato un sistema innovativo e un modello scalabile e sta esportando questo modello in tutto il mondo. Non a caso fa parte della prima delle 4 A elencate.
Attualmente si parla molto di food tech o fashion tech. Ma c’è davvero sempre e comunque bisogno del “tech”? Si può innovare lo stesso, partendo dai comparti tradizionali dove esiste già una filiera. Peraltro sono quei comparti verso i quali si indirizzano i grandi investitori internazionali in Italia.
Non me ne vogliano gli startupper e gli investitori nell’ICT o nel biomedicale. Il Club degli Investitori continuerà ad investire, ma con una strategia nuova che spiegherò nel prossimo blog….