Retail e innovazione, non è solo questione di tecnologia

Dai manichini intelligenti ai robot al posto commessi: lo shopping del futuro è già realtà. Ma l’Italia è ancora indietro. “Per fare innovazione serve un diverso approccio col cliente. La tecnologia? Conta, ma su internet. Se vado in un negozio voglio il consiglio di un commesso” dice Fabrizio Valente, fondatore di Kiki Lab

Pubblicato il 19 Nov 2014

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Fabrizio Valente, fondatore di Kiki Lab

Manichini intelligenti, negozi virtuali, robot al posto dei commessi. Nell’ultima puntata di EconomyUp in onda e in streaming su Reteconomy abbiamo raccontato lo shopping del futuro. Un tema sul quale uno dei massimi esperti in Italia è Fabrizio Valente, che si occupa di consumi e retail da 25 anni e che è il fondatore di Kiki Lab, istituto di consulenza e formazione in quest’ambito, con clienti come Autogrill, Conad, Eataly, Mc Donald’s. Con lui abbiamo fatto il punto sulle tendenze più interessanti in Italia e nel mondo.

Valente, provando a dare una cornice di dati, quanto si investe in Italia in innovazione nel retail?
«Non esistono dati affidabili perché non esiste una definizione univoca di innovazione nel retail. Per esempio, se un supermercato investe nelle casse di self check-out, può considerarlo innovazione. Ma esistono da anni, non sono una novità per nessuno. Quindi niente dati, ma il settore retail è indietro, e nel quadro del retail globale, l’Italia è ancora più indietro»

Si innova per tagliare i costi o per trovare nuovi clienti?
«Oggi fare innovazione vuol dire necessariamente entrambe le cose. Ma fare efficienza non è fare innovazione. Il vero obiettivo è trovare nuovi clienti e convincere quelli vecchi a spendere di più. Il problema dei negozi e delle catene, che in Italia è ancora più forte perché in molte cose siamo dietro, è tenere il passo dei clienti che cambiano più velocemente di quanto riusciamo a evolverci noi».

Quali sono i casi più interessanti, da portare come esempio?
«Il World Retail Congress di Parigi (concluso il 1 ottobre, ndr) ha certificato alcune realtà italiane all’avanguardia. Per la categoria miglior lancio dell’anno, dei sette finalisti, tre erano italiani. Metro, la catena di farmacie Dr Fleming e soprattutto Eataly, che alla fine ha vinto, con la sede di Milano allo Smeraldo».

Qual è la lezione di Eataly per linnovazione nella vendita?
«Lo storytelling, un nome particolarmente indovinato, un’identità forte. Ma soprattutto, la vera innovazione è stata di approccio. Oscar Farinetti ha saputo togliere il sapore snob all’eccellenza alimentare. Il cliente medio, quando entra in un negozio di questa fascia, che sia alimentare o non alimentare, si sente in soggezione e alla fine rinuncia. Basti pensare a un luogo come Peck a Milano. Una gastronomia di altissimo livello, che però intimidisce. Questo da Eataly non succede: Farinetti ha inventato l’eccellenza per tutti».

Questa è innovazione nelle pratiche e nello stile. La tecnologia non conta?
«No, affatto, la tecnologia è decisiva. Ma anche qui bisogna fare un discorso. Sento spesso parlare di multi-canalità, ma il problema è che le catene affiancano online e offline mettendoli in competizione interna. Sa qual è il risultato? Che in molte realtà, il direttore del reparto e-commerce e quello commerciale dei negozi si fanno la guerra, si rubano clienti a vicenda. E il rischio è questo: che l’innovazione non dia somma cento, che in questa lotta di sconti e prezzi interna a una stessa catena, si perdano clienti e profitti per strada».

In che modo si possono evitare queste guerre interne?
«La soluzione è la cross-canalità. Stimolare gli incroci, il sito deve invitare i clienti ad andare nel negozio, e viceversa».

Concretamente?
«Anche in modi semplici. La catena francese Jules, quando compri online, ti dà un coupon per avere l’orlo sui pantaloni con lo sconto in negozio, dove poi magari una commessa ti convince a comprare una camicia che si abbina bene. E la somma è più di 100, si sono creati profitti nella cross-canalità, invece di perderli. Saturn, in Spagna, ti permette di prendere online un appuntamento in negozio con un personal shopper».

Mi sembrano tutte strategie che escludono dalla partita i piccoli negozi.
«Non necessariamente. Noi lavoriamo con Confcommercio, e ci sono molte idee con cui una realtà indipendente può innovare. In questo caso la soluzione è la creatività. Le racconto la storia di un hamburgheria di New York che trovo emblematica di quanto si può fare, mettendo idee concrete al servizio dell’innovazione. In questo locale, ci si può creare il proprio hamburger tra migliaia di combinazioni. Se succede che il cliente ha creato una ricetta “inedita”, può dargli un nome, e quel nome rimane per sempre. E il locale è pieno di touchscreen con cui condividere la ricetta col proprio nome sui social network. In questo modo, il cliente non solo è fidelizzato ma diventa anche un promoter».

E soluzioni tecnologiche hardware? Ci sono catene di negozi che sperimentano commessi robot.
«Questa è una bufala. Se io cerco la tecnologia, vado su Internet. Se vado in negozio, voglio l’esperienza umana, il contatto personale, il consiglio di un commesso. È valorizzando le persone che i negozi fisici possono reggere la concorrenza di Internet, non eliminandole».

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