Agroalimentare

Nuove regole sulle etichette: i rischi per il Made in Italy

Le normativa Ue sull’etichettatura degli alimentari genera reazioni contrastanti. Il ministro Martina parla di scelte che vanno «nella giusta direzione» ma le associazioni di categoria criticano l’eliminazione dell’obbligo di indicazione dell’origine dei cibi. La vera sfida sarà però nel 2016: la tabella nutrizionale sarà obbligatoria

Pubblicato il 18 Dic 2014

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Non sempre le regole europee piacciono ai produttori agroalimentari italiani e la normativa sulle nuove etichette entrata in vigore lo scorso 13 dicembre non fa eccezione. Perché se da un lato, ricorda anche il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, l’applicazione del regolamento Ue 1169/2011 sulla trasparenza dell’etichettatura alimentare «va nella giusta direzione» rendendo, ad esempio, più semplice per chi è allergico o intollerante capire quali ingredienti sono contenuti in un alimento, dall’altro, criticano le associazioni di categoria, si rende facoltativa una informazione che da sempre è garanzia di made in Italy: il luogo in cui quella pasta o quel formaggio sono stati prodotti.

Il Ministero della Salute ha realizzato questa esaustiva infografica per far capire cosa cambia davvero sulle scatole e le confezioni di ciò che mangiamo. Caratteri più grandi, obbligo di indicare allergeni e sostanze che provocano intolleranze, surrogati e succedanei ben in vista accanto al nome del prodotto, obbligo di indicare meglio che tipo di oli e grassi sono utilizzati, indicazione obbligatoria del fatto che il prodotto sia stato decongelato o meno: queste le principali novità che però novità a ben vedere per l’Italia non sono. Il vero cambiamento riguarda, appunto, solo il luogo di produzione.

Le nuove regole infatti impongono l’indicazione del responsabile dell’alimento, cioè il nome di chi commercializza il prodotto ma che nulla può avere a che fare con lo stabilimento in cui quel prodotto viene lavorato e confezionato: questa informazione, in Italia, ora è facoltativa con alcune eccezioni. Per la carne bovina l’obbligo resta.

L’indicazione d’origine non ha solo un valore sociale e di sicurezza alimentare ma è legato anche a tutto lo sforzo fatto dal made in Italy agroalimentare contro il cosìddetto italian sounding, cioè il rischio di contraffazione di prodotti tipici proprio grazie all’omissione di informazioni chiare su dove e come sono realizzati certi alimenti.

Un giro d’affari che secondo Coldiretti ed Eurispes vale 60 miliardi di euro. Rendere obbligatoria o meno una informazione su un prodotto che mangiamo, dunque, ha un impatto economico tutt’altro che secondario. Ma i conti non vanno fatti sul costo dell’inchiostro o della stampa per adesivi ed etichette. Secondo Confagricoltura «l’etichettatura di per sé non è un costo che aumenta se occorre scrivere più informazioni, ma senz’altro è un peso burocratico che comporta tempo e regole chiare di applicazione che, allo stato attuale, per il regolamento europeo 1169/2011, non ci sono».

A preoccupare le imprese non sono gli adesivi o le informazioni che, anzi, più complete sono più garantiscono le vendite. L’azienda torinese di gelati Pepino – che ha inventato il famoso cremino mangiato al mare da generazioni di italiani – spende meno di 10 centesimi per ogni etichetta. «Abbiamo prodotti molto diversi che richiedono etichette diverse ma più che il costo in sé della stampa di cui ci occupiamo noi stessi grazie a una stampante termica sono gli aggiornamenti costanti sulla normativa che richiedono investimenti», spiega Marilù Cariello, responsabile qualità dell’azienda di gelati.

«Ho il compito io stessa di aggiornare queste informazioni e diciamo che le nuove regole in vigore per ora non cambiano moltissimo il nostro approccio all’etichettatura». Sarebbe a dire? «Sarebbe a dire che continueremo a indicare il luogo di produzione perché farlo ci garantisce credibilità e permette al consumatore di associare il prodotto alla storia e alla tradizione dell’azienda. Voglio dire che più trasparenza e chiarezza metti nel tuo prodotto migliore sarà il rapporto con i tuoi clienti e migliori quindi le vendite».

Marilù è una risorsa interna e quindi il costo dello studio dell’etichettatura non pesa più di tanto sul bilancio di Pepino. I produttori che invece appaltano all’esterno questi costi devono investire di più. Ma il made in Italy avrà tutto da guadagnare nel continuare a indicare il luogo di origine e produzione del prodotto. Il problema, semmai, riguarderà i consumatori. Grandi multinazionali del cibo che delocalizzano ed esternalizzano la produzione, infatti, possono non indicare in quale parte del mondo è stato lavorato e confezionato quel cioccolato o quel grano.

Eppure, la vera sfida per le imprese italiane non è applicare la prima parte del regolamento entrato in vigore il 13 dicembre di quest’anno, quanto la seconda parte che entrerà in vigore sempre il giorno di Santa Lucia ma del 2016 e che introduce un obbligo di grande impatto economico per le aziende: l’inserimento della tabella nutrizionale sul prodotto con l’indicazione dei grassi, degli zuccheri, delle calorie e dei valori nutritivi dell’alimento.

La tabella è già presente in moltissimi prodotti industriali, ma tra due anni anche realtà più piccole come Pepino dovranno adeguarsi. Come spiega ancora la responsabile qualità dell’azienda, Marilù Cariello, «questa parte del regolamento europeo impone al produttore di eseguire analisi di laboratorio su ogni tipologia di prodotto: io ho chiesto già preventivi a diversi laboratori e la media si aggira attorno ai 250 euro per ogni tipo di prodotto che realizziamo».

Ma le analisi possono costare anche molto di più. Alcune camere di commercio si stanno attrezzando per fornire ai produttori gli strumenti di analisi e consulenza necessari a realizzare la tabella concorrendo anche economicamente. L’ente di Torino ad esempio coprirà il 50 per cento dei costi di analisi di laboratorio per aiutare le piccole e medie imprese.

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