Partiamo dai numeri: gli investimenti ricevuti dalle startup fintech, dal 2014 al 2017, hanno raggiunto quota 25,7 miliardi di dollari. Un dato sicuramente positivo, se non fosse però che poche di queste hanno in realtà portato a una vera e propria disruption nel settore, né sono riuscite a imporsi come leader in un servizio o segmento finanziario specifico. È quanto emerge dalla ricerca dell’Osservatorio Fintech & Digital Finance della School of Management del Politecnico di Milano, presentata a Milano durante il convegno “Fintech & Digital Finance: quale modello per l’Italia?”.
Più in profondità, l’analisi condotta dall’Osservatorio riporta che delle 730 startup analizzate, il 60% offre servizi bancari, il 19% soluzioni per investimenti, il 5% si rivolge al settore assicurativo, mentre il restante 16% – seppur non si tratti propriamente di startup finanziarie – propone servizi di supporto specifici per il mondo finance. Tuttavia seppur ancora poco incisive a livello di mercato, le fintech hanno la capacità di aprire nuove frontiere e generare competenze e figure professionali all’avanguardia, in grado di ritagliarsi uno spazio all’interno di strutture organizzative caratterizzate da attori tradizionali, scatenando così cambiamenti significativi.
A testimoniarlo sono ancora una volta i numeri: le startup che lavorano negli spazi non normati, infatti, ricevono in media il 205% in più degli investimenti, mentre quelle che automatizzano la gestione del cliente arrivano al 192%. Senza dimenticare che sono sempre di più le fintech che collaborano con i soggetti tradizionali, in un’ottica di open innovation. Il mondo bancario e finanziario (tra cui quello italiano), però, seppur preoccupato da tematiche fondamentali per il business degli istituti di credito, sembra essere ancora marginalmente interessato da iniziative innovative in grado di produrre effetti positivi nel breve termine.
Inoltre il ruolo delle startup fintech, almeno quelle italiane, è ancora considerato marginale da una parte degli esperti del settore: come ha sottolineato durante il convegno Marco Folcia, partner di Pwc, «le startup italiane non riescono a impensierire gli istituti finanziari tradizionali perché partono da una base utenti estremamente bassa. Inoltre nel caso in cui una banca dovesse avvertire una necessità espressa meglio da una fintech, avrebbe capitali a sufficienza per acquisirla».
Se si guarda il comportamento degli utenti, però, questo trend, seppur non nell’immediato, potrebbe cambiare: l’analisi dell’Osservatorio ha evidenziato come il 16% degli italiani ha utilizzato almeno un servizio Fintech nel corso del 2017, mentre il 56% dei clienti bancari è già attivo da pc, tablet e smartphone. A guidare la classifica dei servizi più utilizzati tra gli utenti italiani è il mobile payment (15% degli intervistati ha dichiarato di averlo utilizzato nell’ultimo anno), seguono mobile wallet (8%), strong autenthication (ancora 8%), trasferimenti di denaro peer-to-peer (7%). Mentre in alla pari (5%) sono il trading di criptovalute, i chatbot e il crowdfunding. Chiude il robo advisoring (1%), che però cresce tra i millennials.
A tutto ciò, poi, va anche aggiunta la discesa in campo delle cosiddette “big del tech” che, attraverso, 51 grandi operatori internazionali offrono circa 120 soluzioni finanziarie. Una spinta innovativa derivante anche dalla continua diffusione di tecnologie come la blockchain, i big data e i robo advisory.
Secondo Marco Giorgino, Responsabile dell’Osservatorio Fintech & Digital Finance «la velocità con cui si sviluppano le nuove tecnologie e si susseguono le spinte al cambiamento indotte dalla rivoluzione digitale porta a una continua ridefinizione dei confini della competizione e del modello di business di soggetti finanziari e bancari. Le spinte digitali esterne sono costituite da dalle crescenti ambizioni delle aziende tecnologiche sulle attività finanziarie, dalla dinamicità delle startup Fintech e dalla nascita di ecosistemi aggiuntivi al trust bancario come quelli basati su blockchain. Ma si assiste anche alla nascita di importanti motori di cambiamento interni, come la presa di coscienza dell’importanza della gestione dei dati, la rilevanza dell’intelligenza artificiale e forme organizzative agili più adatte alla finanza dal DNA digitale».