L’Italia è campione d’Europa nel business lending, ma sembra essere una notizia passata sotto traccia. Anzi, mentre questo sottosettore del FinTech mostra il suo valore in maniera sempre più evidente, si alza il coro di chi – opinionisti, giornali, accademia, regolatori – ne sottolinea i rischi per il consumatore, sulla scorta più di pregiudizi che di constatazioni reali. L’unico vero rischio in realtà è quello di perdere il treno dell’innovazione per un Paese che già si caratterizza per arretratezza tecnologica e digitale.
Digital lending, il contesto di riferimento
L’erogato del digital lending per PMI in Italia, secondo le stime, ha ampiamente superato i 3 miliardi di euro. La sola Credimi ha trasmesso alle PMI 1,7 miliardi, gestendo richieste di 60.000 aziende, diventando il leader assoluto nell’Unione europea. Ma oltre a Credimi operano in Italia diverse aziende di digital lending per PMI, sia nell’invoice financing che nei finanziamenti a medio termine che nel crowdfunding, che nei finanziamenti a microimprese. Altre stanno nascendo in questi mesi. Tre miliardi di euro sono una cifra di gran lunga superiore a quanto erogato in Francia, Spagna o Germania dagli operatori del settore. Imprenditrici e imprenditori italiani del fintech stanno dimostrando – pur tra molte difficoltà – di saper crescere ancora di più dei loro omologhi europei.
Il Covid come acceleratore del tech lending
Nell’anno della pandemia le Fintech italiane hanno aiutato decine di migliaia di piccole aziende a superare la crisi, utilizzando le garanzie dello stato in maniera semplice, velocissima, e – naturalmente – in maniera completamente remota, che però si è combinata con una elevatissima qualità del servizio.
Forzate dalla condizione di lockdown, i 4 milioni di imprese italiane hanno abbracciato con entusiasmo ancora maggiore di prima una quantità di servizi digitali, tra i quali il lending. Questa rivoluzione, frutto dell’iniziativa degli imprenditori fintech e della disponibilità al cambiamento delle piccole imprese, è ora abbracciata da tutte le banche del Paese. Tutte, anche quelle fieramente opposte al concetto di lending digitale fino a 2-3 anni fa, hanno messo in cantiere iniziative di digitalizzazione. E nell’arena sono scese anche le challenger bank, banche nativamente digitali, ora anche focalizzate sui servizi alle imprese. È una notizia estremamente positiva per l’ecosistema finanziario e per quello economico.
L’indifferenza e l’ostilità all’innovazione
Questa spinta imprenditoriale e innovativa, questa voglia di cambiamento che ha un potenziale enorme, non viene sostenuta in alcun modo dalle istituzioni. Mentre a Londra o a Parigi le aziende tecnologiche più promettenti sono ascoltate da governo e regolatori, interpellate quando si progettano cambiamenti legislativi importanti, spesso sostenute nei rapporti con l’estero, consigliate e guidate per quanto riguarda gli aspetti regolatori, in Italia si sceglie un approccio più semplice: queste aziende vengono ignorate.
Un esempio concreto? Nessuna azienda fintech, nessuna associazione del fintech, e nessun imprenditore del fintech, sono mai state interpellati dalle istituzioni durante la pandemia che va avanti da ormai 18 mesi, nonostante il ruolo importante del settore nel sostenere le aziende durante la crisi in corso. All’indifferenza inizia ora a sommarsi l’ostilità. La quale si nutre di due argomenti, ambedue falsi; spesso sostenuti in mala fede; sempre sostenuti senza evidenze e fatti.
Il primo argomento è che il fintech goda di un “arbitraggio regolatorio” tale per cui potrebbe giocare con regole diverse dalle istituzioni finanziarie tradizionali. Peccato che questo sia da un lato proibito e dall’altro impossibile: il Testo Unico Bancario e tutte le norme che regolano l’attività finanziaria non fanno alcuna differenza tra aziende “fintech” e altre; e il più delle volte nemmeno tra aziende piccole e aziende grandi; e meno che mai tra aziende giovani e aziende anziane. Quindi, una azienda giovane, piccola e basata su tecnologia e dati, che voglia per esempio fare finanziamenti, dovrà essere una banca o un intermediario ex art. 106, o una SGR autorizzata all’erogazione di credito: rispettando esattamente le stesse norme applicate a ogni altro intermediario finanziario che voglia misurarsi con queste attività. Se invece una giovane azienda fintech volesse offrire servizi di pagamento, dovrebbe costituirsi come banca o come istituto di pagamento o come istituto di moneta elettronica (o come AISP o PISP, le nuove figure regolatorie previste da PSD2): rispettando le stesse identiche norme che si applicano a chiunque voglia offrire servizi di pagamento.
Questo dimostra che semmai, esiste un arbitraggio a sfavore del fintech, o più in generale a sfavore di tutte le aziende finanziarie piccole e giovani, costrette a subire (e pagare) sistemi di controllo della stessa entità di quelli pensati per aziende 100 volte o 1000 volte più grandi – come mostreremo più avanti.
Il secondo argomento è che ci siano “rischi del Fintech”, grandi e preoccupanti, che richiedano, in aggiunta a quelle ordinarie, regole e vincoli specifici, volti a proteggere consumatori, risparmiatori e la stabilità del sistema. Coloro che sostengono questo argomento non menzionano fatti, numeri o altre evidenze a supporto della loro tesi. Né potrebbero, perché i fatti dicono che:
In Italia qualcosa tra il 95% e il 99% dei flussi di risparmio, investimento, finanziamento, e pagamento, passa dalla finanza tradizionale; è bislacco sostenere che i grandi rischi vengano proprio da quella piccola parte che passa dal fintech
Tutte le crisi finanziarie degli ultimi 50 o 100 anni, comprese quelle più gravi, sono derivate da squilibri della finanza tradizionale – mai dall’innovazione tecnologica;
Non c’è, in Italia o in Europa, un singolo caso di “crisi” di azienda fintech che abbia provocato danni anche solo paragonabili a quelli, per esempio, venuti dai fallimenti di banche tradizionali
I consumatori e i clienti, se interpellati in modo imparziale e professionale, confermerebbero che le aziende fintech sono trasparenti e affidabili altrettanto se non più delle aziende finanziarie tradizionali.
Anche qui siamo di fronte a dati e fatti che dicono chiaramente che “i rischi del fintech non hanno nulla di speciale”; sono di specie identica, ma di dimensioni infinitamente più piccole, rispetto a quelli derivanti dalle aziende finanziarie tradizionali; e sono già regolati, come spiegato sopra, in maniera identica a quella dei prodotti tradizionali.
L’importanza di guardare al Fintech come una opportunità
In realtà il fintech è, molto semplicemente, come altri settori trainati da dati, tecnologia e digitalizzazione, un settore ad altissima crescita. Che crea posti di lavoro ad alto valore aggiunto; nuove opportunità di impiego e di crescita per chi proviene dalla finanza tradizionali; nuovi servizi, maggiore concorrenza, e aumento della produttività, per gli utilizzatori, In Italia, l’enorme bacino di piccole e piccolissime imprese ci permetterebbe di essere anche un laboratorio di applicazioni cosiddette di “small business tech”.
Se in Italia guardassimo al fintech con queste lenti, invece che con l’ossessione dei rischi, dei vincoli e dei controlli, dovremmo preoccuparci non di come frenare ma di come accelerare. Perché, a parte la leadership che abbiamo faticosamente conquistato in alcuni segmenti (come il digital lending), siamo generalmente molto indietro.
Siamo in ritardo sul fronte della digitalizzazione, come ogni anno ci ricorda l’indice Desi – che ci colloca quartultimi davanti solo a Grecia, Bulgaria e Romania. Siamo in enorme ritardo quanto a investimenti in Fintech. Nel primo semestre dell’anno l’Europa ha investito in fintech 10,4 miliardi (fonte: Dealroom/Sifted, che prevedono circa il doppio a fine 2021); di questa cifra l’Italia rappresenta meno dell’1%. Siamo indietro rispetto al Regno Unito, che tipicamente gioca un altro campionato, ma soprattutto lo siamo rispetto a Francia, Germania, Svezia, Austria, Svizzera e spesso perfino Spagna e Olanda.
Rischiamo di diventare anche nel Fintech, come in tutto il digitale, un mercato di consumatori e di sbocco, invece che un produttore di imprese. E nel frattempo assistiamo impotenti al gigantesco esodo di competenze che stiamo subendo a favore di Regno Unito, Francia, Spagna, Germania, e sempre di più anche Portogallo: sono due milioni i giovani italiani (un quarto del totale) che se ne sono andati. E tra di essi ci sono molti dei talenti cruciali non solo per il Fintech ma più in generale per l’innovazione e per la creazione di imprese nei settori che faranno il Pil e l’occupazione dei prossimi 50 anni.
Quattro proposte su come usare il Fintech per “riprenderci il gusto del futuro”
Questa presa di coscienza, di quanto siamo indietro rispetto al resto del mondo che avanza e di quante opportunità stiamo dilapidando, dovrebbe portare legislatori e regolatori a rovesciare completamente l’attuale prospettiva. Cosa potremmo fare per invertire la rotta? Ecco quattro proposte, tutte a costo zero – perché non sono incentivi e sussidi quelli che creano innovazione). Tutte e quattro le proposte possono essere meglio dettagliate. Non è questa la sede, ma certamente la disponibilità di tutta la filiera del fintech a discuterne è infinita. Se qualcuno deciderà di coinvolgerle.
Bisogna ridurre la gigantesca complessità normativa e regolatoria che grava le aziende finanziarie più giovani di costi e incertezze insostenibili. Il Testo Unico Bancario già prevede proporzionalità: le norme si applicano a tutti coloro che esercitano attività bancaria, ma proporzionalmente in base alla dimensione. Ma il processo di controllo, gli adempimenti e gli obblighi sono identici che si sia una banca sistemica o che si sia una start-up FinTech. Così un’azienda come Credimi, con meno di 70 dipendenti e un numero di clienti imparagonabile rispetto a quelli delle grandi banche, è tenuta a produrre 43 politiche scritte di controllo dei rischi, 135 relazioni scritte annue di controllo, migliaia di pagine di contratti per ogni transazione di cartolarizzazione: queste e moltissime altre prescrizioni si sono tradotte in 7 milioni di euro di costi operativi, risorse sottratte alla tecnologia, all’innovazione, alla crescita, e soprattutto a talenti di giovani italiane ed italiani. È necessario semplificare queste procedure in modo sostanziale e immediato: questa azione, da sola, aumenterebbe a dismisura l’attrazione di investimenti da tutta Europa.
Bisogna creare sistemi di consultazione e interpello con risposte certe e tempi di risposta rapidi e garantiti. Le diverse iniziative lanciate negli ultimi mesi con l’obiettivo di fare di Milano città del FinTech rischiano di finire nel vuoto se non veicolano cambiamenti veri, che rendano Milano e l’Italia luoghi effettivamente più attraenti per gli investimenti in Fintech. Per esempio, L’Hub FinTech di Banca d’Italia, inaugurato a piazza Cordusio a fine 2020, potrebbe avere un impatto significativo se si trasformasse nel luogo dove gli operatori del settore possono portare qualsiasi interpello ai regolatori che garantiscano una risposta scritta e definitiva entro 30 giorni. Questo sarebbe davvero un cambiamento che ci porterebbe dalla retroguardia all’avanguardia dell’Unione Europea.
Bisogna usare i salvataggi bancari come strumento di forte promozione della concorrenza. C’è un salvataggio bancario che ha aperto la strada a tutti gli altri e che oggi dovrebbe indicare la via maestra. Parliamo del pacchetto approvato nel 2009 dalla Commissione europea a favore della Royal Bank of Scotland, e subordinato al piano di ristrutturazione della banca e a una serie di impegni assunti dal governo del Regno Unito. Tra le clausole era inclusa la cessione di una parte delle filiali di Rbs focalizzate sui servizi alle pmi, per ripristinare la concorrenza sul mercato. Successivamente il governo britannico ha chiesto e ottenuto di promuovere la concorrenza nei servizi bancari alle pmi con il Remediation Fund, approvato formalmente dalla Commissione europea il 18 settembre 2017. Sostanzialmente il nuovo pacchetto consta di 700 milioni da usare in parte per sovvenzionare le innovazioni nel settore dei servizi bancari alle pmi e in parte per incentivare le pmi clienti delle filiali di Rbs dedicate a transitare verso i nuovi attori del mercato. Se questo diventasse uno standard, ovvero se ogni volta che si verifica un salvataggio bancario diventassero obbligatorie anche misure per favorire lo sviluppo di nuovi operatori e nuova concorrenza, gli investimenti in Fintech aumenterebbero in modo sostanziale.
Bisogna valorizzare gli investimenti immateriali. Nell’economia degli intangibili, che a livello globale hanno superato il valore degli asset reali (valgono due terzi dell’economia Usa, secondo una ricerca Brand Finance, e nel mondo sono al record storico di 65,7mila miliardi di dollari), il settore finanziario si distingue perché esclude tutti gli investimenti in tecnologia dal capitale. È un paradosso: se una azienda FinTech acquista un immobile lo può iscrivere tra gli asset e includere nel capitale proprio. Se invece investe nel lavoro di 80 ingegneri o altrettanti programmatori per scrivere righe di codice e dare vita a un nuovo prodotto, le spese che sostiene finiscono nell’avviamento negativo. In pratica questo si traduce nel fatto che gran parte degli asset di una azienda fintech abbia un valore pari a zero a bilancio.