Il 2021 sarà un anno decisivo per l’Italia, per le sue imprese, per tutti noi. C’è da vincere la battaglia con il Covid-19, reagire a una crisi di sistema come mai ne abbiamo vissute dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, cogliere le opportunità che da questa ne deriverà con il Recovery Plan europeo che sarebbe meglio da adesso chiamare con il suo vero nome: Next Generation EU.
Adesso comincia il vero, e duro, lavoro per costruire il futuro, per pensare alla prossima generazione di imprese e di clienti. Digitalizzazione e sostenibilità non possono essere più solo ingredienti di visioni strategiche ma priorità operative da perseguire con convinzione e determinazione. Le risorse, pubbliche e private, non mancheranno ma servono piani, progetti e modelli organizzativi efficaci. E questo vale sia a livello di Governo, nonostante il livello insoddisfacente dell’attuale dibattito politico, sia a livello della singola impresa e dei suoi ecosistemi. Fermarsi alle questioni tecnologiche potrebbe essere un grave errore, perché decisivo in questo processo di trasformazione sarà il fattore P(eople): dalla scuola alla formazione in azienda.
Sappiamo che l’Italia è in ritardo nel percorso di trasformazione digitale ma non è ferma. Proprio come l’industria delle assicurazioni, che non parte certo da zero ma deve cambiare passo per mantenere competitività, quote di mercato, margini. Il 2020 ha amplificato la distanza fra l’offerta di servizi digitali e la domanda, una crepa pericolosa da sanare velocemente per evitare che vi si insinuino nuovi player. Ci sarebbe poco da preoccuparsi se fossero solo startup e scaleup. In agguato, pronti a scattare, ci sono i Digital Giants, soprattutto statunitensi ma non solo, che non hanno cultura assicurativa certo ma tecnologie, dati e capacità di combinarli per arrivare sul mercato con proposte aggressive, semplici e soprattutto convenienti.
L’Italia è un Paese di grandi tradizioni. La storia ci ricorda che il primo contratto di assicurazione di cui si ha traccia fu stipulato a Genova nel 1189. Ma la tradizione non è più sufficiente e anzi può diventare un handicap se non viene potenziata con visioni e azioni capaci di comprendere il cambiamento, un macigno che trattiene le imprese e ne frena la trasformazione e la crescita.
Che cosa manca al’insurance italiano per essere insurtech? C’è il know how, la tradizione e il trust dei clienti, anche quando la reputation non è al massimo. E c’è anche la consapevolezza dei propri limiti, e non è cosa di poco conto, come ci dice una survey condotta da Italian Insurtech Association con EY, che viene presentata mercoledì 27 gennaio nel corso del webinar L’impatto dell’innovazione sui modelli organizzativi delle assicurazioni” (qui puoi registrati all’evento).
Anche se solo 1 azienda su tre ha un Chief Innovation Officer, la maggioranza considera una priorità la diffusione di un mindset innovativo all’interno dell’ organizzazione. Nella maggioranza dei casi prevale l’open innovation sull’innovazione interna, ma quando si domanda quali siano le priorità per favorire l’innovazione le prime due risposte sono: formazione e acquisizione di nuove competenze.
Per diventare insurtech, quindi, alle compagnie di assicurazione servono prima di tutto “startupper in azienda”, per usare il titolo del libro di Roberto Battaglia, appena pubblicato da Egea, che sviluppa questa tesi: si può diventare imprenditori all’interno di un’organizzazione. Come? Gli ingredienti base sono: aziende che mettono a disposizione “spazi di espressione” non momentanei, dall’altra persone pronte a occuparli con coraggio. Perché la miscela funzioni, però, non possono mancare pochi e chiari meccanismi per l’uso di questi spazi e una cassetta degli attrezzi per trasformare problemi e sfide in soluzioni concrete.
Il mindset per l’innovazione, quindi, non si costruisce solo attivando e diffondendo competenze tecnologiche ma avviando un cambiamento culturale capace di rendere le tecnologie produttive per il business. Lavorando sul fattore P(eople). Scrive provocatoriamente Battaglia: “Per andare in questa direzione è necessario vivere di più con chi in azienda si occupa dei clienti esterni, pensare come loro e, soprattutto, entrare nella loro area di azione fino a quasi diventarne parte integrante”.
C’è da fare, quindi, una vera rivoluzione culturale nelle organizzazione, e quindi nelle assicurazioni, per arrivare all’altro lato del fattore umano. Da una parte la “rivalutazione”, il reskilling, delle persone interne e il reclutamento di nuovi talenti con profili di innovazione, dall’altra l’attenzione, potremmo quasi dire la simbiosi, con le persone esterne, i clienti. Non a caso la customer centricity è una delle direttrici di innovazione individuate dall’Italian Insurtech Association e uno dei mantra di qualsiasi progetto di trasformazione digitale.
Per le compagnie di assicurazioni creare questa simbiosi significa passare dalla logica del prodotto a quella del servizio e di fatto ripensare i modelli organizzativi come quelli di business, le relazioni con la filiera, l’apertura verso nuovi ecosistemi. Startup e scalup possono essere fonti di ispirazione e di stimolo ma il capitale da valorizzare è già dentro le compagnie, nella loro storia, nei loro portafogli. Va reinvestito con strategie adeguate ai cambiamenti del mercato e con consapevolezza che nel business non si è più soli. La vera sorpresa, alla fine, sarà scoprire che essere insurtech significa prestare più attenzione alle persone e ai loro bisogni, dentro e fuori le aziende.