Per la seconda volta in poche settimane sono costretto a ricredermi: le banche non servono solo a distruggere l’economia, come nel 2007-2008 è emerso sanno fare, o soffocarla per assenza di credito, come fanno da sette anni a questa parte. Esse (alcune) sanno anche porsi quesiti importanti. E condividerli. Buono. Molto buono. Altro che balle sulle ‘banche del territorio’. Banche che studiano per vedere come mettere a frutto la liquidità che la BCE regala loro da anni.
Proprio in questo mese di ottobre Intesa Sanpaolo ha pubblicato i risultati di uno studio condotto da Ilaria Sangalli e Stefania Trenti dal titolo Imprese femminili: strategie competitive e differenziali di performance nel manifatturiero italiano. Quali evidenze da un’analisi di matching. (Rimane questo incredibile provincialismo del dover infilare qua e là una parola in inglese, ma non ci posso fare nulla. Se non stroncare il lavoro, ma purtroppo lo farò solo se lo riterrò da stroncare. Or, perhaps, I simply should ignore it).
Per cominciare, l’obiettivo del lavoro è ben sintetizzato e alcuni dettagli metodologici ben presentati:
Si cercherà dapprima di porre l’accento su potenziali differenze tra imprese femminili e non in termini di strategie adottate: innovazione, internazionalizzazione, possesso di certificazioni ambientali o di qualità della gestione, acquisizione di marchi registrati a livello internazionale. Si affronterà poi da un punto di vista econometrico la questione dei differenziali di performance, con specifico riferimento alla crescita del fatturato e della marginalità. Si cercherà inoltre di porre l’accento sul nesso di causalità, poco esplorato in letteratura. L’analisi copre gli anni dal 2008 al 2013, un periodo sfidante per il manifatturiero italiano, che ha dovuto resistere agli urti di una doppia ondata recessiva.
La domanda cruciale è ovvia: esiste una specificità dell’imprenditoria femminile nel settore manifatturiero di questo nostro Paese? Se si, allora lo si scopre soltanto con una analisi differenziale tra un gruppo ‘femminile’ e uno ‘non femminile’ da porre a confronto su una serie di indicatori che le autrici specificano con chiarezza: innovazione, internazionalizzazione, possesso di certificazioni ambientali o di qualità della gestione, acquisizione di marchi registrati a livello internazionale.
Il primo risultato importante del lavoro è che, nonostante che le ‘imprese in rosa’ (mamma mia che linguaggio!!) siano comparativamente di dimensioni minori, il loro “profilo strategico evidenzia una significativa propensione delle imprese femminili alla proiezione internazionale, accompagnata da una maggiore attenzione al marketing e (limitatamente alle imprese più grandi) all’innovazione”. Mica pizza e fichi, proposizione dura. La quale torna a ripeterci ciò che da sempre le persone con un quoziente di intelligenza positivo (si, >0) sanno: la coesistenza delle differenze è ricchezza, sempre e dovunque, e le imprese non fanno eccezione.
Risultati positivi, dunque. I quali però non stanno certo a dire che il ‘rosa’, per parlare come le autrici, sia garanzia di perfezione, successo e crescita. Citando ancora direttamente dalle conclusioni:
“[…] non si è in grado di identificare alcuna differenza significativa di risultati tra le imprese femminili e non, nel periodo 2008-13. All’interno del manifatturiero italiano, le imprese femminili hanno vissuto l’ultima fase di crisi in modo sostanzialmente simile alle altre realtà industriali.”
Riassunto (mio, fs): le imprese ‘femminili’ non vanno meglio del gruppo di controllo in termini di dinamica del fatturato e profittabilità. Esse di differenziano invece dal gruppo di controllo per orientamento all’internazionalizzazione al marketing, all’innovazione. Ora ognuno è libero di valutare i due risultati come crede: vi è chi dirà che le chiacchiere stanno a zero e che l’EBITDA canta, il resto è prosa; e vi è chi dirà che, visto che l’ETBIDA non differenzia, a differenziare sono le caratteristiche di gestione e le strategie. Io la metto così: fanno gli stesso soldi che fanno tutti? Bene. Ma si differenziano per maggior propensione all’innovazione e all’internazionalizzazione? Meglio. Aspetto di vedere le differenze tra EBITDA negli anni a venire.
Figura 1: Quota di imprese brevettatrici (%)
Figura 2: Quota di imprese con marchi internazionali (%)
Figura 3: Quota di imprese esportatrici (%)