Ad un recente convegno mi è stato chiesto quale fosse lo stato dei “capitali” a disposizione delle imprese operanti in Italia nei comparti hi-tech. Articolo le riflessioni che ho fatto su quattro punti.
1) Il capitale equity per le startup. Se guardiamo alle imprese hi-tech nei loro primissimi anni di vita, cioè alle startup, la situazione dal punto finanziario presenta chiari e scuri. I dati dell’Osservatorio del Politecnico di Milano parlano complessivamente di circa 220 milioni di investimenti. Pochi in valore assoluto e rispetto ai benchmark più avanzati mondiali ed europei. Ma comunque in crescita rispetto al passato e con un importante segnale positivo rappresentato dall’arrivo di investimenti dei VC internazionali.
2) Il capitale equity per le scaleup/growth company. Se guardiamo alle imprese hi-tech che non sono più startup ma che hanno ancora un elevato potenziale di crescita, la situazione è ben peggiore: infatti gli investimenti da parte di operatori di private equity nelle imprese hi-tech italiane è estremamente contenuto, parliamo di poche decine di milioni di euro nel 2016. E non possono essere considerati alternative reali i mercati azionari MTA e STAR, accessibili a ben poche imprese di dimensioni già importanti: basti pensare che nel 2016 ci sono stati solo 3 Ipo (Technogym, attrezzi per fitness, ENAV, gestione traffico aereo, e COIMA, investimenti immobiliari).
3) Il debito. Questa carenza strutturale di capitali equity in Italia è in parte compensata dal capitale di debito, in particolare da quello coperto dal Fondo di Garanzia per le Piccole e Medie Imprese del Mise, nato per le Pmi e poi aperto anche alle startup. Nel 2016 il Fondo ha fornito garanzie per 11, 6 miliardi a favore di oltre 70mila piccole e medie imprese, tra cui anche un bel numero di startup. Ma è chiaro che il capitale di debito non può essere visto come sostitutivo del capitale equity, soprattutto per quelle imprese ad elevato potenziale di crescita che operano in settori hi-tech con modelli di business innovativi e, quindi, caratterizzate intrinsecamente da profili di rischio medio-altri.
4) L’AIM. Ecco perché in questo scenario, penso che un ruolo importante possa essere svolto dal mercato azionario dell’AIM, pensato proprio per le piccole e medie imprese che vogliono crescere. L’AIM ha vissuto – da quando è nato – fasi alterne dal punto di vista dei collocamenti: ben poco attivo nella prima parte della sua vita, ha avuto un boom nel periodo 2013-2015 per poi tornare ad un periodo di semi- quiescenza fino ad oggi. Adesso, però, anche grazie agli importanti incentivi fiscali introdotti a fine 2016 – lo scudo fiscale del 30 per cento per gli investimenti fatti in startup e pmi innovative e i piani individuali di investimento (i cosiddetti PIR) che defiscalizzano capital gain e dividendi – l’AIM potrebbe diventare una grande opportunità per tutte quelle imprese hitech che vogliono reperire capitali di rischio per rafforzare la loro crescita e scalare il loro modello di business.
* Andrea Rangone è CEO di Digital360 e fondatore degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano