Economia globale

Made in Italy, a chi fa male (e a chi no) la svalutazione dello yuan

La decisione della PBC di deprezzare la sua moneta può avere ripercussioni negative sull’export italiano in Cina. Gli analisti di alcuni quotidiani nazionali sottolineano però anche che per alcuni gruppi non dovrebbero esserci rischi. E in qualche caso, la mossa cinese potrà avere anche effetti positivi…

Pubblicato il 14 Ago 2015

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Per tre giorni consecutivi la Cina ha deprezzato lo yuan creando apprensione sui mercati globali e scatenando le proteste del mondo occidentale. La moneta della Repubblica popolare è stata svalutata del 4,65%. È iniziata una nuova guerra delle valute? Quanto inciderà la politica della People Bank of China sull’economia internazionale?

In Italia, le prime a preoccuparsi di questa operazione unilaterale sono state le imprese del made in Italy che esportano in Cina. Il rischio più evidente è che il minor potere d’acquisto del renminbi porti a un calo delle vendite anche per settori come il lusso che fino a qualche tempo fa sembravano piuttosto immuni alle fluttuazioni delle valute e agli scossoni dell’economia globale.

Ma leggendo le analisi dei quotidiani italiani sulle possibili ripercussioni della svalutazione si scopre che non tutte le aziende italiane esportatrici corrono un reale pericolo e che alcuni danni collaterali potrebbero arrivare dalle difficoltà nell’export che avrà un Paese locomotiva come la Germania.

Federico Fubini, sul Corriere della Sera, fa notare che “la Cina è il decimo cliente dell’export italiano, per circa 12 miliardi di euro” mentre “è diventato il quarto maggiore cliente della Germania”. E osserva che la progressiva svalutazione dell’euro sullo yuan (di quasi un terzo), avvenuta dal 2011 a oggi, ha contribuito a spingere l’export tedesco verso il Dragone. Da questa settimana – scrive Fubini – la Cina “comprerà meno dall’Europa, le venderà di più a prezzi più bassi e dunque esporterà deflazione verso Occidente pur di tutelarsi e difendere posti di lavoro nelle fabbriche di Guangzhou (Canton) o di Shanghai”. Ed è a questo punto che arriva il paradosso: per restare competitivi, i grandi gruppi tedeschi come Daimler, Bmw, Bayer e Siemens devono sperare che le politiche espansive della Bce, tanto contrastate dalla Bundesbank, continuino ad avere effetto nella svalutazione dell’euro. Presto – dice Fubini – “il Made in Germany ne avrà ancora più bisogno per difendersi dalla pressione cinese”. Quanto all’Italia, ci sono grandi gruppi “che realizzano i fatturati più alti in Cina” al riparo dai rischi “perché producono in loco”: Pirelli, Luxottica, Prysmian, Danieli. Tra i giganti che fanno successo in Cina sono Prada – scrive il giornalista del Corriere – non ha “veri siti produttivi”.

Sempre sul Corriere, Daniela Monti si concentra su cosa può cambiare per i marchi italiani del lusso. L’articolo ricorda – dati di BCG alla mano – che “i cinesi acquistano il 29% dei prodotti mondiali della fascia lusso” e che, secondo un rapporto Kepler, tra i brand made in Italy “Salvatore Ferragamo realizza il 37 per cento delle sue vendite nell’area Asia-Pacific, escluso il Giappone (il 20/25% nella mainland China), Tod’s nella stessa area il 23% (12/13% nella grande Cina), Moncler il 34 (10/15 in Cina)”. La svalutazione dello yuan potrebbe incidere sui ricavi, sia in Cina, che nelle boutique all’estero, dove al momento le maison del lusso realizzano una buona parte dei ricavi. “Il negozio di Moncler, in Faubourg Saint Honoré, a Parigi, totalizza il 45% delle vendite grazie ai cinesi in trasferta europea”, si legge nel pezzo. Tuttavia il numero uno in Italia del fondo di private equity Carlyle Group, Marco De Benedetti, smorza i timori, anche considerando che il deprezzamento è di pochi punti: “in molte industrie nel settore della moda e del lusso si era dimenticato che ciò che conta davvero è il prodotto e la capacità di capire le esigenze dei consumatori. Tutto il resto è abbastanza irrilevante. Il made in Italy ha grandi prospettive, grande potenziale. Ha una storia e questo continua a piacere molto. Quelli che hanno un prodotto forte, vero, che ha un senso per il consumatore, continueranno ad andare molto bene”.

Su Repubblica, Vittoria Puledda riporta la stima della società di investimenti Exane, secondo cui ci sarà un “probabile lieve impatto diluitivo” sugli utili delle aziende del lusso, “generato – scrive la giornalista – dalla tendenza che avranno d’ora in poi i consumatori cinesi a fare shopping in patria, piuttosto che durante i viaggi all’estero (soprattutto in Europa), perché la svalutazione dello yuan ridurrà il gap di prezzi tra Cina e Vecchio continente (finora a vantaggio di quest’utimo)“.

Oscar Giannino, ricostruendo su Il Messaggero le cause che hanno portato alla svalutazione “con il contagocce” dello yuan e i possibili effetti per tutta l’economia globale, si sofferma sul caso italiano precisando che “i paesi più penalizzati sono quelli che mandano in Cina oltre il 20% del proprio export: magari fosse il caso italiano. È ovvio che veniamo colpiti anche noi, a cominciare da lusso e made in Italy. Ed è vero che nell’interscambio con la Cina siamo in forte deficit, cioè esportiamo lì tre volte meno di quanto lei faccia da noi. Ma non è affatto vero che siamo tra i più penalizzati, in una scossa che riguarda il mondo intero. Noi siamo solo il 25esimo paese fornitore al mondo della Cina. Per esser chiari: alla Germania va peggio che a noi”.

In più, sottolinea un potenziale effetto positivo per l’export italiano negli Usa: se il dollaro si rinforza, gli States possono acquistare di più in Europa, e in Italia. “Oggi il dollaro è di un 10% circa più caro rispetto al basket di maggiori valute mondiali. Questa cosa, per l’importanza assoluta che ha per l’Italia l’export negli Usa – assai più che in Cina – è positiva per noi”.

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