“La richiesta di Made in Italy negli ultimi anni è aumentata parecchio. Ecco perché diversi marchi famosi dell’abbigliamento di lusso stanno riportando alcune produzioni in Italia e hanno bisogno di affidarsi ad aziende come la nostra per soddisfare la domanda del mercato: se non lo facessero, non potrebbero continuare a fare successo e rischierebbero di morire”. Il quadro che tratteggia Andrea Lardini (nella foto a destra), presidente della maison di moda che porta il suo cognome, è sempre più frequente nel panorama del fashion italiano.
Gli acquirenti più esigenti del Made in Italy – in particolare i nuovi ricchi di Cina, India e altri Paesi emergenti – cominciano a storcere il naso davanti a capi non prodotti al cento per cento in Italia. Pensare e progettarli nel nostro Paese e poi realizzarli fuori non basta più. È necessario che anche le mani e il know how siano italiani, altrimenti diventa più difficile giustificare l’autorevolezza del brand e il costo dei prodotti.
Così c’è chi ritrasferisce in patria alcune linee di produzione e, quando gli stabilimenti non sono sufficienti o sono troppo costosi, deve necessariamente appoggiarsi a imprese già attive sul territorio nazionale, come la Lardini, che oltre a vendere le proprie collezioni fanno anche da terzisti per i marchi più conosciuti del Made in Italy. L’alto livello di qualità è garantito anche dall’attenzione che le aziende, e in questo caso la Lardini, ripongono su chi vi lavora. “Uno dei nostri principali punti di forza è costituito dalle risorse umane”, spiega il presidente dal quartier generale di Filottrano, in provincia di Ancona. “Ci sono lavoratori in attività qui da trent’anni: hanno l’esperienza per fare i direttori d’orchestra”.
Ma proprio perché il Made in Italy gode di un successo internazionale ancora più ampio che in passato, anche la Lardini ha messo in pista una serie di iniziative per crescere nell’export con le proprie produzioni (soprattutto abbigliamento per uomo ma da tre anni sono in catalogo anche collezioni donna). Una delle mosse è aprire nuovi showroom, tra cui quello di Milano, con inaugurazione fissata per il 3 aprile.
“Noi in un momento difficile siamo riusciti ad andare bene, ma l’Italia è un mercato in ribasso”, spiega Lardini. “Ecco perché bisogna lavorare con ancora più attenzione sull’export e fare ancora più innovazione. Aprire uno showroom è un modo per dare un’immagine nuova all’estero, dare un servizio diverso, esporre il prodotto in modo più moderno, veloce”. Oltre all’inaugurazione di showroom, l’azienda ha anche creato nuovi uffici dedicati al potenziamento del lavoro di ricerca e sviluppo.
Questa strategia, basata da una parte sul supportare i grandi brand italiani e dall’altra sul proporre creazioni sempre più all’avanguardia, ha permesso alla maison marchigiana di raggiungere buoni risultati anche in periodi di crisi. Il fatturato, che negli anni passati era calato anche fino a 38 milioni di euro, è risalito a 53 milioni nel 2012, quindi a 54 nel 2013 (+1,8% rispetto all’anno precedente) e per il 2014, secondo le previsioni, dovrebbe attestarsi intorno ai 60 milioni, con una crescita d
ell’11,1%.
Anche il numero degli occupati è cresciuto, passando dai 303 del 2012 ai 309 del 2013. Nell’anno in corso il personale alle dirette dipendenze della famiglia Lardini (nel top management ci sono anche i fratelli di Andrea: Annarita, Lorena e Luigi) dovrebbe arrivare a quota 320. In più, se si aggiungono gli occupati nelle aziende partecipate da Lardini e in quelle dell’indotto, il conto totale fa circa 900.
Naturalmente, se è forte l’impegno per aiutare i marchi italiani a riportare produzioni in Italia, l’idea di andare ad effettuare alcune produzioni oltre confine è esclusa. Tuttavia, alcuni potenziali partner avevano chiesto alla Lardini di creare uno stabilimento produttivo anche in Cina. Ma l’offerta è stata declinata. “Potremmo stringere una partnership solo con soggetti che parlano il nostro linguaggio e hanno la nostra stessa filosofia”, sottolinea il presidente. “Se qualcuno è interessato a fare prodotti di qualità, basati su ricerca e innovazione, è il benvenuto. Ma se la proposta è di essere competitivi sul prezzo producendo fuori e rinunciando a un certo livello qualitativo, la risposta è no: sarebbe un’enorme perdita di immagine”.