H-Farm, l’incubatore di start up in provincia di Treviso, è uno dei luoghi migliori per coltivare e far crescere la propria idea imprenditoriale. Uno degli strumenti più interessanti è H-Camp, un programma di tre mesi, dal 7 settembre al 5 dicembre, con fondi fino a 15 mila euro per team. Le aree di interesse sono sulle eccellenze del Made in Italy: Fashion, Design, Food & Wine, Tourism, Home Automation Wellness. Per iscriversi, c’è tempo fino al 15 luglio. Ne abbiamo parlato con Timothy O’Connell, accelerator director di H-Farm.
Quali sono i requisiti che cercate in chi risponde alla call per H-Camp?
Cerchiamo soprattutto un team forte. Le persone sono importanti, devono saper lavorare insieme, avere entusiasmo e convinzione. Poi le idee, certo. Possono essere fantastiche, geniali, eppure questo non basta. Devono essere alla portata del team, e della sua esperienza, e adatte al mercato, in questo caso quello italiano.
Che tipo di progetti siete interessati a selezionare?
H-Camp punta molto sui settori forti del Made in Italy: food, design, fashion e casa. Ma ci interessano molto le applicazioni della stampa 3D e tutto quello che può influire sul mondo del retail e della vendita. Per esempio, siamo interessati e abbiamo già lavorato con startup che si interessano al bitcoin e a sue potenziali applicazioni per la vendita al dettaglio.
Il vostro scopo è mettere le startup in contatto con le imprese: come procede il dialogo tra questi due mondi?
I ragazzi devono capire che le aziende rifiutano l’innovazione astratta, scelgono e puntano sempre su idee che hanno una concretezza immediata, che loro sono in grado di inquadrare e capire. Comunque devo dire che anche l’impresa tradizionale è cambiata: ora il gap di cultura con le startup si è ridotto. Oggi finalmente quando un imprenditore affermato e uno startupper si siedono allo stesso tavolo, parlano la stessa lingua. Fino a un paio di anni fa, anche app o social network sembravano concetti alieni
Qual è la filosofia di H-Camp?
Sembra un paradosso, ma quello che proviamo a insegnare a H-Camp è un rapporto diverso con l’idea del fallimento. In Italia c’è il terrore di fallire, è come un marchio che ti resta per la vita. Questo irrigidisce i giovani imprenditori, ed è la differenza principale con l’ecosistema americano. Le qualità, la preparazione, la cultura, ormai sono simili. Ma c’è questa differenza di approccio all’idea che le cosa possano andare male. E l’approccio più sano è quello anglosassone: hai sbagliato? Andrà meglio alla tua prossima startup. Qui in Italia c’è questa idea che hai una sola chance e poi sei fuori.
Ci sono settori che i progetti che vagliate stanno lasciando scoperti e su cui lei consiglia di puntare?
Gli startupper stanno lasciando scoperti i settori meno sexy, quelli che riguardano i servizi alle imprese, il b2b. Oggi, tutti puntano direttamente al consumatore, ma lì c’è bisogno di capitali grandi, molta fortuna e un forte interesse da subito. Invece nei servizi alle imprese, bastano un paio di clienti importanti per partire e rafforzarsi. Purtroppo questo lo hanno capito ancora in pochi.
Quali sono i risultati di cui è più orgoglioso delle passate edizioni?
Alcune startup sono già in fase di break even, tra i progetti più interessanti usciti da H-Camp ci sono Lumifold, che hanno creato delle stampanti 3d portati che sono andate molto bene nella loro campagna di crowdfunding su Indiegogo. Oppure i ragazzi di Sellf, che hanno lavorato a un app di crm (customer relationship management, ndr), e loro sì che sono andati in direzione del b2b. Il loro prodotto si trova su App store da agosto scorso e sta andando molto bene.