Un’impresa è sostenibile se lo è anche la sua supply chain: come scegliere i fornitori

Un’impresa che vuole garantire il proprio impatto positivo deve essere responsabile non solo delle proprie operation ma anche di come si comportano i fornitori. Ecco come ottenere sostenibilità nella supply chain e alcuni esempi di aziende che lo fanno

Pubblicato il 08 Gen 2024

Supply chain e sostenibilità

Sostenibilità e supply chain sono strettamente legate tra loro. Negli articoli precedenti pubblicati in questa rubrica ho parlato spesso dell’importanza che ha per le imprese for good il coinvolgere i propri fornitori, arrivando ad affermare che un’impresa è “for good” tanto quanto lo è la sua supply chain. Questo può avvenire sia privilegiando fornitori già virtuosi che motivando quelli che ancora non si sono attivati. Un’impresa che vuole garantire il proprio impatto positivo deve infatti acquisire la consapevolezza di non essere responsabile solo delle proprie operation ma anche di come si comportano i propri fornitori. Infatti, se non ci si vuole nascondere dietro ad un dito, scegliendoli si avvalla il loro modo di agire. E quando questo è basato su pratiche non sostenibili, dal punto di vista legale, umano, sociale ed ambientale, se ne diventa complici.

Questa responsabilità fa parte del più ampio concetto di “Responsabilità Integrale d’Impresa”, di cui ho già parlato qui. Questo concetto di responsabilità tocca i fornitori in due dimensioni, quella dell’essere parte della catena del valore dell’impresa e quella di essere un suo stakeholder, nei confronti del quale l’impresa for good deve porsi in un’ottica di reciprocità nella creazione di valore.

Supply chain e sostenibilità: cosa chiedere ai fornitori

In questo articolo mi concentro sulla prospettiva del fornitore come parte della catena del valore. Questa prospettiva prevede che, facendosi carico dell’impatto che i propri fornitori hanno su persone, società ed ambiente, un’impresa consideri questo impatto come una discriminante nella scelta del fornitore, il che accade integrando nella sua valutazione criteri addizionali rispetto a quelli tradizionali, tipicamente prezzo e livello di servizio. Da questo punto di vista sono sempre di più le imprese che chiedono ai propri fornitori di condividere la loro “pagella di sostenibilità”, ed organizzazioni che la certificano o la riconoscono secondo standard predefiniti. In un prossimo articolo parlerò dei diversi strumenti che le imprese hanno a disposizione per assolvere al compito di valutare la sostenibilità dei fornitori, qui mi limito a citare quelli più semplici, ammettendo il loro valore indicativo, non per questo trascurabile.

Supply chain: “pagelle di sostenibilità” e altri strumenti di valutazione

Per iniziare a smarcare i temi più rilevanti ed avere una prima idea sulle pratiche di chi abbiamo di fronte, può bastare infatti un buon questionario, magari accompagnato da una verifica in loco. Oppure si può iniziare con qualche domanda “mirata”, fatta in modo informale a chi lavora nell’azienda di cui si vuole conoscere di più. Ricordo in merito quanto mi siano cadute le braccia quando “intervistando” il manager di un’impresa che si proponeva di diventare fornitrice di Davines (cosmetica professionale), mentre passeggiavamo nella loro sede feci alcune considerazioni, lo ammetto maliziose, sulla presenza di un alto numero di lavoratori stranieri, e sulla possibile difficoltà a gestire la loro integrazione. La risposta che mi fu data è stata del tipo:” Eh sì, è difficile, pensi che vogliono avere gli stessi diritti dei lavoratori italiani!”. Da lì le braccia cadute ….

In tutti i casi, la “pagella” o l’esito di interviste e questionari vanno visti non solo come uno strumento di valutazione del fornitore, ma anche come un’opportunità per lavorarci insieme al fine di migliorarne le performance di sostenibilità. Questo approccio del “lavorare insieme” è infatti preferibile, soprattutto con i propri fornitori consolidati, rispetto al lasciarli nel loro “brodo” in tutti i casi in cui ci sia la volontà del fornitore di adeguarsi agli standard richiesti, ma anche quando la “forzatura” che l l’esercizio del proprio potere negoziale permette può aiutare a smuovere le cose nella direzione giusta.

Tutto questo ovviamente quando non è l’impresa stessa che spinge il fornitore verso l’insostenibilità, come accade se sfrutta il suo potere negoziale per imporre condizioni che impediscano di fatto il rispetto dei diritti e l’adozione di buone pratiche, in particolare sfruttando l’esistenza in alcuni paesi di norme e consuetudini meno stringenti o di minore attenzione al loro rispetto.

Supply chain e sostenibilità: le organizzazioni internazionali che se ne occupano

Oggi è peraltro crescente l’attenzione che organizzazioni indipendenti, e con esse i media più attenti, danno al comportamento delle imprese nel rapporto con i fornitori. Fra queste segnalo la World Benchmarking Alliance, che studia l’azione delle imprese, in particolare del settore petrolifero, tessile e alimentare, in relazione ai diritti umani. Il report che pubblica è illuminante sia rispetto a quanta strada resta da fare che alla possibilità di percorrerla concretamente, come dimostrano i grandi passi in avanti già fatti da imprese di primo piano e che devono gestire alti livelli di complessità. E che si possa fare lo dimostra anche quello che sta accadendo nelle filiere più critiche, come quella del cacao, nella quale è un esempio la B Corp Tony Chocolonely  o del caffè, nella quale un’eccellenza è certamente Illy, un’altra B Corp (QUI si possono conoscere alcune delle sue attività “sul campo”).

Supply chain sostenibile: gli esempi

In tutti i casi, un buon passaggio nella direzione della sostenibilità della propria catena di fornitura sono quelli della sua trasparenza e della tracciatura dei materiali che vengono utilizzati e forniti. Trasparenza e tracciatura permettono di acquisire consapevolezza e nello stesso tempo di evitare che arrivi addosso all’impresa una crisi fra capo e collo, come è inevitabile che in un mondo sempre più interconnesso possa prima o poi capitare. Rispetto alla trasparenza merita una segnalazione la Supply Chain Transparency Pledge, un’iniziativa specifica del settore tessile a cui hanno aderito decine e decine di imprese, fra cui Adidas, Ralph Lauren, Levis, Lacoste e Patagonia. L’impegno di queste aziende comporta la pubblicazione delle informazioni di base su tutti siti industriali in cui viene svolta la propria produzione, così da permettere la verifica del rispetto dei diritti umani negli stessi. Patagonia è peraltro all’avanguardia di questo approccio, e permette da tempo a chiunque sia interessato di avere informazioni sulle fabbriche in cui avviene la sua produzione.

Rispetto a tracciatura e trasparenza vale anche la pena di segnalare la tecnologia proposta da Sourcemap, all’avanguardia nelle soluzioni di mappatura della supply chain.

Insomma, per diventare “moltiplicatori” di sostenibilità le opportunità sono tante, in tutti i settori, per le imprese di qualunque dimensione. Si parte volendolo!

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Paolo Braguzzi
Paolo Braguzzi

Paolo Braguzzi è stato CEO di imprese internazionali per oltre 25 anni, in particolare nel settore della cosmetica. Oggi ricopre il ruolo di consigliere di amministrazione indipendente, è membro del Supervisory Board di B Lab Europe, del comitato esecutivo della The Good Business Academy e dell’Advisory Board di Assobenefit, oltre ad essere docente di Stakeholder Management dell’Università di Verona. Ha pubblicato con FrancoAngeli il libro “L’impresa for good. Come usare il business per creare valore umano, sociale ed ambientale”.

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