@Alvise_Biffi
Rendere il mercato interno più attrattivo per gli investimenti di lungo termine, puntando sulla tutela del contribuente? Sembra un sogno. Ma è quel che si propone di fare il Governo con il “Patent box”: il decreto che dà attuazione ad alcune misure previste dalla Legge di Stabilità 2015 in materia di incentivi all’innovazione.
Come sa chi legge abitualmente queste pagine, insisto molto sui temi della ricerca e dello sguardo al futuro: strumenti che consentono alle imprese di costruirsi un orizzonte solido, in un contesto competitivo e in costante evoluzione. Ma non voglio limitarmi ai discorsi: da imprenditore prediligo i fatti, e cerco di guardarmi attorno per trasformare le esortazioni in suggerimenti utili. Da qualche tempo a questa parte, lo Stato sembra aver imboccato la strada del sostegno allo sviluppo, e il “Patent Box” rappresenta un progresso di cui discutere. Anche perché lo stile italiano del “fare impresa” viene chiamato in causa direttamente: qui si vuol tradurre l’ingegno in capitale. Non possiamo non approfittarne.
Il provvedimento firmato dal ministro per lo Sviluppo economico, Federica Guidi, e dal ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, introduce un regime fiscale agevolato per i redditi derivanti da “opere dell’ingegno”: marchi, brevetti, copyright, modelli di utilità, formule e perfino il know-how aziendale coperto da segreto industriale. Non si tratta di incentivi di poco conto, e la componente di know-how non brevettato è una prima assoluta, anche rispetto ai “patent box” di altre nazioni. Sono previste, inoltre, deduzioni di valore crescente, «pari al 30% (nel 2015), al 40% (nel 2016) e al 50% (dal 2017)». Un costo per lo Stato, secondo la relazione tecnica presentata a margine della legge di stabilità, di circa 140 milioni di euro l’anno. Introiti che si spera di recuperare nel lungo termine, grazie alla crescita prodotta. E qui entriamo in gioco noi e il nostro talento.
Naturalmente, sorge spontaneo un interrogativo: chi ne ha diritto? Ebbene: possono accedere allo sgravio tutti i soggetti «titolari di reddito d’impresa, inclusi i non residenti nel territorio dello Stato, che abbiano una stabile organizzazione in esso». Da questo, si capisce quale sia l’obiettivo della norma: favorire la permanenza dei “beni immateriali” prodotti in Italia e attrarre quelli creati all’estero, attraverso un ambiente giuridico (e fiscale) che promuova la ricerca.
Segnalo, inoltre, che è possibile accedere agli sgravi indipendentemente dal fatturato, dal settore economico in cui si opera, dal tipo di contabilità adottata e dal titolo giuridico in virtù del quale si utilizzano i beni di cui sopra. Aspetti che mi sembrano tutt’altro che secondari.
Per quanto riguarda il “come”, ci troviamo di fronte a un’opzione, che deve essere esercitata nella dichiarazione dei redditi. Essa è rinnovabile, e valida per cinque periodi di imposta. Una volta esercitata, diventa irrevocabile: quindi, occorre pensarci (ma non ci sono grandi controindicazioni).
Il reddito oggetto del regime agevolato è dato dal rapporto fra spese generiche e somme investite per sviluppare e mantenere il “bene immateriale”, ma può anche essere definito attraverso un dialogo con l’Agenzia delle Entrate: il cosiddetto ruling.
L’investimento minimo per accedere allo sgravio è pari a 30 mila euro, mentre il beneficio massimo consentito (in un anno) è di 5 milioni di euro per ciascun soggetto.
Queste le linee essenziali del provvedimento (dovrei dire dell’opportunità). Non è un meccanismo intuitivo, ma vi incoraggio a non farvi abbattere dalla burocrazia “filtro”, perché la misura è di quelle da non perdere.
Spero di essere stato utile, e desidero concludere con una citazione, che dà la misura di quanto sia importante approfittare di simili facilitazioni. Ne ho scelta una che, secondo me, si adatta all’argomento in discussione. L’ho presa in prestito a Cartesio: «Non è sufficiente essere dotati di un buon ingegno, la cosa davvero importante è saperlo applicare bene».