Premessa
C’erano una volta la destra e la sinistra. La destra cercava tagli sempre più consistenti alla spesa pubblica e tasse sempre più basse –per sé, ovviamente, quella che oggi chiamiamo ‘il top 1%’, non per il bottom 99%. La sinistra, all’opposto, parlava relativamente poco di tasse (sempre quelle del top 1%) e voleva molta spesa pubblica. Facile.
Poi venne Ronald Reagan, e con lui cominciò la confusione. Si, perché fu lui a spiegarci che ‘destra’ e ‘sinistra’ sono concetti che mal si mappano su concetti quali ‘spesa pubblica’, ‘prelievo’, e ‘deficit delle pubbliche amministrazioni’. Avvenne infatti che Reagan lasciò alla Fed, alla cui presidenza era arrivato da poco il durissimo Paul Volcker (oggi e da anni gran consigliere di Obama!), il compito di produrre una recessione feroce allo scopo di ricondurre l’inflazione degli anni Settanta sotto controllo; e assunse per sé, cioè per il governo, per la politica fiscale, un ruolo espansivo adottando la combinazione ‘minor prelievo e maggiore spesa’. Cioè disavanzi correnti crescenti. Il che faceva scoppiare la testa alla ‘destra’ tradizionale. E alla sinistra tradizionale, perché lo stimolo derivante all’economia da quel mix di politica fiscale era veramente molto aggressivo, e certo di matrice keynesiana: che si pensava fosse di sinistra. Occorse un po’ di tempo perché si capisse che ‘essere di destra’ non significava più amare i bilanci in pareggio ed essere di sinistra amare i deficit che stimolano l’attività produttiva. Si può spendere sugli armamenti, o si può spendere per i sussidi alle ragazze madri ma, quale che sia la spesa che ti piace, devi spendere.
Oggi, trentacinque anni dopo l’inizio di quell’esperienza, ci troviamo più confusi che mai. Le differenze sono tante, tra ora ed allora, ma l’immagine di un presidente per altri versi di destra che propone di stimolare l’economia attraverso minor prelievo e maggiore spesa, cioè di fare una cosa di sinistra, continua a destare un interesse profondo. Vediamo perché.
La tesi: il momento è importante perché ci troviamo di fronte alla ‘rotazione’ della politica economica da puramente monetaria, che sta uscendo di scena, a una prevalentemente fiscale, che sta subentrando
Comincio con un poco di ricostruzione storica, altrimenti non si capisce nulla. Fino al 2006 potevamo parlare di un ‘mix di politica monetaria e fiscale’ tanto negli Stati uniti che in Europa. Certo, in Unione economica e monetaria (l’area euro) era in atto il famoso ‘vincolo del 3%’ ma, visto che l’economia un poco cresceva, il vincolo non era drammaticamente stringente come lo sarebbe diventato con la crisi del 2007 e l’inizio della Grande Recessione. Quando ci si rese conto che la crisi finanziaria del 2007 si stava trasmettendo all’economia reale e la recessione (globale) non era una fantasia ma un pericolo che si stava materializzando, il G20 del novembre 2008 adottò una politica fiscale aggressiva che venne attuata mediante aumenti sostanziali dei deficit dei governi: quello cinese prima, con un rapporto deficit/Pil del 16,1%, e quello statunitense poi, con uno del 5,6%. L’Europa, guidata dalle vergini vestali del bilancio in pareggio, rifiutò di stimolare, scegliendo di risparmiare e, con ciò, di affogare nella disoccupazione crescente. [Val sempre ricordare che nel 2010 il tasso di disoccupazione era del 10% tanto in Usa come in Europa. Oggi esso è del 5% in Usa e del 10% in Europa. Dice niente?].
Negli Stati Uniti si continuò ad attuare un mix di politica monetaria e politica fiscale entrambe espansive fino al 2010-2011, quando l’enfasi venne spostata marcatamente sulla sola politica monetaria: ricorderete i QE1, QE2, QE3, QE4. In Europa, niente politica di stimolo fiscale, e politica monetaria espansiva ad oltranza (ma in ritardo), con il primo QE a marzo 2015. [Che in Europa la politica monetaria espansiva sia stata del tutto incapace a far rivivere perfino uno straccio di inflazione è fatto che non va dimenticato, anche se non serve discuterlo ulteriormente qui].
Schematizzando un poco per amor di semplicità, si può dunque serenamente dire che negli ultimi dieci anni le autorità di politica economica dei paesi ad alto reddito pro capite hanno progressivamente emarginato le politiche di stimolo mediante la spesa, anche se in Europa assai prima e assai più di quanto non sia avvenuto negli Stati Uniti. Il Giappone è forse il paese che ha continuato a usare di più, anche se certo non in maniera massiccia, la leva fiscale con il presidente Shinzo Abe.
Elezioni presidenziali Usa. È notevole che tutti e tre i maggiori candidati alla presidenza avessero nella propria piattaforma politiche fiscale espansive. Certo, Sanders molta spesa e redistribuzione del carico fiscale a favore dei redditi bassi, finanziata con aumento del prelievo sui redditi alti; Clinton con aumenti di spesa importanti e riduzione del carico moderata; Trump con riduzione marcata del carico sui gruppi ad alto reddito e aumento della spesa non indifferente. Ma, proporzioni a parte, ecco riemergere quel ruolo della spesa pubblica che i sostenitori del bilancio in pareggio hanno negato per anni, condannando l’Europa a occuparsi di Draghi e banca centrale tedesca giorno e notte. Quella ‘spesa per investimenti’ che le teste migliori della professione economica europea continuano a predicare da anni, Paul De Grauwe per tutti, trova oggi attenzione presso un presidente Usa altrimenti ‘di destra’.
Ovviamente, non è tutto così semplice. Infatti, come piace ricordare a chi fa la mia professione, c’è il breve periodo e c’è il lungo periodo. Abbiamo visto le reazioni dei mercati finanziari all’annuncio della vittoria di Donald Trump: negative nell’immediato, diciamo 48 ore; positive, al limite dell’eccessivo secondo alcuni, quelle della settimana 14-18 novembre; tendenza al ritracciamento, cioè ancora ottimismo si, ma cauto, all’inizio della settimana 21-25. Il rendimento del decennale statunitense è cresciuto veramente molto, passando dall’1,75% circa al 2,35% circa in meno di 10 giorni. Una inversione di tendenza drammatica che, ancora una volta e come già avvenne nella primavera del 2015, fa pensare alla fine del grande ciclo espansivo dei prezzi delle obbligazioni. Finirà come allora, come un palloncino che si sgonfia? Non credo, anche se sono confuso, come molti: nel 2015 le politiche fiscali erano stagnanti, nessun governo assegnava loro un compito attivo, non vi era ragione perché la domanda di titoli dovesse contrarsi a fronte di timori inflazionistici legati all’offerta di nuovi titoli pubblici; oggi invece, mentre è vero che parliamo ancora di programmi elettorali e non di spese stanziate e nuove emissioni di titoli, queste ultime appaiono assai più probabili e ‘vicine’ nel tempo. Quindi? Quindi mi aspetto che i tassi di mercato continueranno a salire, e che il 14 dicembre la Fed decreterà un aumento del tasso di sconto. Il che è da follower (dei mercati), ma funzionerà per santificare l’aumento recente.
Ma questi, mi si dirà, sono i comportamenti tipici dei mercati finanziari: e i mercati reali? Confusione. Paul Krugman, forse il più ardente sostenitore di Hillary Clinton e acerrimo oppositore di Trump, vede un paio d’anni di crescita, per quanto limitata, a cui farà seguito il disastro generato dalle scelte di politica commerciale, ambientale e dell’immigrazione dell’amministrazione Trump. Ma tutti gli altri preferiscono tenersi le proprie opinioni: proprio come avvenne a partire dal 1981, quando il mercato azionario votava contro Reagan per due anni consecutivi, in attesa di capire cosa quelle politiche avrebbero comportato. Certo, allora la politica monetaria era ferocemente restrittiva, mentre invece oggi invece affoghiamo nella liquidità. Che pian piano comincia a crescere a tassi più bassi, sembrerebbe.
Campagna ed elezioni presidenziali statunitensi: quali sono gli effetti sulle scelte di politiche economica – GUARDA IL VIDEO DEL PROFESSOR FABIO SDOGATI