Premessa
Il 23 giugno 2016, il 52% dei votanti al referendum consultivo che si è tenuto nel Regno Unito espresse la preferenza di abbandonare l’Unione europea. La caratteristica di un referendum consultivo è quella di ‘sentire’ il parere popolare circa una determinata questione politica (in questo caso sull’uscita o meno dall’Ue). La richiesta di un parere tramite questo tipo di referendum non è legalmente vincolante alla decisione successiva che verrà presa dal Governo. Ebbene chi (Cameron) ha ‘pianificato’ il referendum, ha anche deciso di non farsi carico di assecondare (o contraddire) l’opinione della maggioranza dei votanti. La scelta è stata lasciata al governo guidato da Theresa May.
La scelta più probabile di ‘uscita’ dall’Ue
Il 13 luglio Theresa May, infatti, dopo aver conquistato la leadership del partito conservatore (stesso partito del suo predecessore David Cameron) è diventata primo ministro del Regno Unito. Da quel giorno, l’attenzione prestata ad ogni suo intervento e a quelli del suo governo è rivolta a carpire la risposta a due domande:
1. Il governo del Regno Unito avrebbe esercitato il proprio diritto di recesso dall’Unione europea, espresso nell’articolo 50 del Trattato di Lisbona?
2. E qualora avesse deciso di esercitare tale diritto, avrebbe negoziato assicurando al Regno Unito la partecipazione al mercato unico in cambio di libera circolazione dei lavoratori (‘soft Brexit’) oppure avrebbe aderito alle regole commerciali del Wto senza accordi specifici con l’Ue (‘hard Brexit’)?
Bene (o forse no)! Il 2 ottobre, in occasione di una conferenza del partito conservatore, Theresa May ha detto che il suo governo preferisce avere un controllo sull’immigrazione piuttosto che l’accesso al mercato unico. Aggiungendo anche: “But let me be clear. We are not leaving the European Union only to give up control of immigration again. And we are not leaving only to return to the jurisdiction of the European court of justice”. E per essere precisi, May ha anche aggiunto che il governo eserciterà l’articolo 50 entro marzo 2017. Il che è stato generalmente interpretato come evidenza della volontà del governo di adottare la strategia dell’’hard Brexit’.
Il primo effetto è stato registrato sul mercato dei cambi attraverso l’evidente deprezzamento della sterlina rispetto al dollaro (a proposito da inizio anno la sterlina è diventata la seconda peggior valuta mondiale in termini di deprezzamento rispetto al dollaro). Torniamo sui primi effetti del deprezzamento alla fine di questo aritcolo.
Ma, come anticipa il titolo, il nostro obiettivo principale è scrivere di lavoro e delle ‘politiche attive’, corredate da annunci, parziali smentite, complete smentite del Governo. Una ‘Chaotic Hard Brexit’.
Proposte e scelte di politica del lavoro (e non solo)
Theresa May ha segnato una significativa inversione di tendenza rispetto ai governi conservatori precedenti riguardo al ruolo del governo a supporto dei lavoratori. In una prima occasione, il primo ministro ha affermato di voler essere sicura che le pratiche e la regolamentazione dell’occupazione mantengano il ritmo delle nuove forme di lavoro, che includono la crescita rilevante di lavoro part time o l’uso di lavoratori autonomi da parte delle società della ‘sharing (o gig) economy’, come Uber e Deliveroo (Theresa May eyes centre stage with review of ‘gig economy’, Financial Times, 1 ottobre 2016). In una seconda occasione, durante la conferenza del partito conservatore il 2 ottobre a Birmingham, il primo ministro ha evidenziato che il ruolo del governo sarà fornire quello che le persone, la comunità e i mercati non possono fornire. In altre parole, il governo supporterà il libero mercato, intervenendo quando non funziona come dovrebbe. Infine, incoraggerà le imprese e sosterrà il libero commercio, non accettando, tuttavia, regole differenti per gruppi di persone differenti (May Looks Beyond Brexit to Portray Herself as Workers’ Tribune, Bloomberg, 5 ottobre 2016).
Tutela dei lavoratori. Buone notizie, no?! Ma in pochi giorni, gli annunci del governo britannico cambiano e gli articoli che seguono sembrano indicare un’evoluzione ‘preoccupante’ dell’attenzione dell’esecutivo nei confronti dei lavoratori.
“Il Foreign Office ha comunicato alla London School of Economics che non intende più servirsi degli accademici di nazionalità estera, ufficialmente per il rischio di diffusione di ‘materiale sensibile’ sulle trattative con Bruxelles”. (Brexit, il governo May non vuole più docenti stranieri come consulenti: “Solo cittadini inglesi”. Clegg: “Sconcertante”, Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2016). Come si può pensare che la nazionalità dei dipendenti possa influenzare la competenza e la professionalità di una lavoratrice/un lavoratore?!
A questo comunicato, si aggiunge la proposta del ministro degli Interni Amber Rudd che vorrebbe che le imprese nel Regno Unito fornissero una lista dei propri dipendenti stranieri (May’s Government Facing Split Over Plan to List Foreign Workers, Bloomberg, 8 ottobre 2016), volta a limitare l’immigrazione. Le imprese hanno reagito con rabbia alla proposta (Amber Rudd will ‘flush out’ employers who fail to recruit Britons, Financial Times, 5 ottobre 2016). Le severe critiche non hanno annullato la proposta; il governo ha solo indicato che la lista non verrà resa pubblica (Companies’ Foreign-Worker Lists Won’t Be Made Public, U.K. Says, Bloomberg, 9 ottobre 2016). Nostro quesito di buon senso: come si può pensare che la nazionalità dei dipendenti possa influenzare la valutazione di un’azienda?!
Per controllare e ridurre l’immigrazione nel Regno Unito, inoltre, il governo britannico sostiene che sta lavorando anche con quello irlandese, il quale però si è subito detto non disponibile, per rafforzare la frontiera esterna della zona di libero spostamento [Common Travel Area]. La Common Travel Area è un’area entro cui è autorizzata la piena libertà di movimento delle persone tra Irlanda e Regno Unito. Questo per evitare di dover imporre un controllo sul confine tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord (che potrebbe essere visto come una violazione dell’accordo del Venerdì Santo (Britain to push post-Brexit UK immigration controls back to Irish border, The Guardian, 9 ottobre 2016).
E ancora, la volontà di rendere il servizio sanitario nazionale (NHS) ‘auto-sufficiente’ entro il 2025 in termini di staff medico (attualmente il 25% dei medici che lavorano negli ospedali del NHS è straniero (Theresa May Under Fire For Hinting NHS Doctors From Overseas Only Welcome Until 2025, Huffington Post, 4 ottobre 2016).
Ma anche i pazienti degli ospedali del sistema sanitario nazionale sono ‘sotto attacco’; infatti, per i tutti gli interventi non d’urgenza, i pazienti del NHS dovrebbero mostrare un documento d’identità valido per identificare l’ammissibilità ai servizi dell’ospedale. Non è ancora chiaro se anche le pazienti in stato di gravidanza dovrebbero mostrare un identificativo valido… (Passport checks considered for pregnant NHS patients, BBC, 11 ottobre 2016).
Infine, e questa è notizia del 12 ottobre, qualcosa di non simpatico comincia a muoversi sul fronte dei prezzi: il grande deprezzamento della sterlina, che nella testa dei geni nostrani e d’oltremanica avrebbe stimolato la domanda mondiale delle merci di produzione britannica, sta inducendo i grandi fornitori internazionali dei supermercati alimentari britannici a chiedere aumenti sostanziali dei prezzi per neutralizzare, almeno in parte, il deprezzamento della sterlina. Articolo da leggere perché istruttivo in particolare per coloro che vanno blaterando dei grandi vantaggi di cui godrebbe il nostro paese uscendo dall’area euro…
Speriamo di peccare di pessimismo, ma….
Ne riparleremo a breve.