Le previsioni, gli avvenimenti, ulteriori previsioni
►Le previsioni
Per dieci anni non abbiamo fatto che parlare di tassi di sconto, di quanto stavano cadendo, del fatto che in Svezia e in Danimarca e in Giappone e nell’area euro erano negativi, e che addirittura i buoni del tesoro (italiani!) a un certo punto pagavano interessi negativi. Insomma, cose mai viste, signora mia. I benpensanti gridavano all’inflazione mentre osservavano deflazione, ma come prevedo (per iscritto) dal 2009, il lupo non si è mostrato e non si mostrerà presto (certo, si mostrerà, tutto avviene nella vita, basta aver pazienza). Ma tassi negativi negli Stati Uniti, no, non ne abbiamo visti. Vero, negli Stati Uniti il tasso di sconto venne azzerato prima che altrove, ma mai è stato posto < 0; e mai c’è stata deflazione.
E da anni il dibattito è se e quando sarebbe stato necessario risollevare il tasso di sconto da zero a un qualche valore comprensibile, cioè >0. Perchè? Beh, le vergini vestali della lotta all’inflazione pensavano che l’economia Usa fosse vicina assai alla piena occupazione si chiedevano cosa avrebbe potuto fare la Fed per “raffreddare l’inflazione” prima che perfino i miscredenti keynesiani la vedessero (e avanti con l’inflazione anche quando non c’è)…; mentre per i keynesiani inflazione bassissima e crescita salariale sostanzialmente nulla, non sussistevano le condizioni per un aumento del tasso di sconto, il quale nella loro (nostra) testa avrebbe potuto mettere in pericolo la ripresa, troppo debole perfino negli Stati Uniti. In questo dibattito la Fed ha sostanzialmente assunto la posizione keynesiana, alzando il tasso di sconto una sola volta dal 2006: nel dicembre del 2015.
Poi, qualche mese fa, i termini del dibattito sono cambiati: erano strettamente economici, come si è visto nella breve sintesi poco sopra, ma in campagna elettorale il candidato Donald Trump li ha trasformati da strettamente economici a prevalentemente politici. La narrazione migliore di questa transizione, e dei suoi effetti probabili sulla decisione che il Federal Open Market Committee (FOMC) ha preso il 14 dicembre, la offre The Guardian l’11 dicembre:
“… as she [Janet Yellen] prepares for a big set piece this week, part of the dilemma of dealing with Donald Trump may be evaporating.
In September, the then presidential candidate said Yellen should be ‘ashamed’ of what she had been doing to the US by maintaining low interest rates. He then railed about the Fed’s supposed lack of independence and suggested that rates would not change while Barack Obama remained in the Oval Office, in order to protect his legacy. We’ll see. But this week the Fed is widely expected to, er, increase rates“.
La questione allora è: fermo restando che neanche per un minuto penso che il FOMC sia disposto a seguire gli ordini di Trump, quali fatti nuovi sono intervenuti sul piano economico che hanno indotto il Federal Open Market Committee ad adottare una decisione che il president elect sembra gradire? In breve, questi.
Dal lato della politica monetaria:
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La Fed ha confermato il proprio atteggiamento, favorevole a un incremento in tempi ravvicinati (dicembre?) se i dati continueranno a mostrare convergenza dell’economia verso gli obiettivi che le assegna il suo statuto, i quali sono sostanzialmente stabilità dei prezzi e bassa disoccupazione.
Ed è successo che:
- Il tasso di disoccupazione è sceso a meno della metà (4,6%) di quello che era nel 2010 (in Unione europea è ancora a quel livello -10%);
- Il tasso di inflazione è basso (ma più alto che in EU) e sta crescendo.
Dal lato della politica fiscale:
In campagna elettorale il candidato Donald Trump ha annunciato, tra altre, le seguenti misure di politica fiscale :
- Riduzione dell’aliquota marginale massima sui redditi delle persone fisiche dal 39,5% al 33%, ma con riduzione anche di altre aliquote;
- Riduzione dell’aliquota d’imposta sulle imprese al 15%;
- Eliminazione dell’imposta sulla proprietà immobiliare.
Concludiamo da tutto ciò che la combinazione di politica monetaria restrittiva e politica fiscale espansiva porterà a tassi di interesse di mercato crescenti, così che un aumento del tasso di sconto deciso dal FOMC apparirà più come una decisione da market-follower che da market-leader. Infatti il decennale governativo statunitense è già tornato a girovagare attorno al 2,5% (era 1,76% circa prima delle elezioni), e il biennale sopra l’1,2% (era circa lo 0,8%).
E questo è il Financial Times del 12 dicembre:
“Bonds buckle as investors wary ahead of Fed prospect of more aggressive central bank and a rising oil price send yields higher”.
Dove il riferimento al petrolio è d’obbligo, perché le vergini vestali della lotta all’inflazione vedono l’aumento del suo prezzo come segno di imminente esplosione dei prezzi. Io no.
►Gli avvenimenti
Proprio come abbiamo dedotto dal ragionamento sviluppato in questa sede, il 14 dicembre il Federal Open Market Committee ha deliberato un aumento del tasso di sconto di 25 punti base. Ovviamente subito su il rendimento del biennale statunitense, così come quello sul decennale, così come il dollaro: 1,049 dollari per 1 euro alle 10:00 di oggi, 1,065 dollari per 1 euro prima e dopo la conferenza di Draghi l’8 dicembre. Il che va a dimostrare che il cambio si muove sulle decisione della Fed, non (tanto) su quelle della Bce.
►Ulteriori previsioni
Che il FOMC avrebbe decretato l’aumento del tasso di sconto Usa lo sapevamo. La novità vera sta nel fatto che la decisione del 14 apre la strada alla previsione che nel 2017 potremmo vedere altri TRE aumenti, mentre prima del 14 dicembre ce ne aspettavamo due. Se questa profezia si avvererà o meno dipenderà crucialmente dalle decisioni di politica fiscale del governo Trump: maggiori i tagli al prelievo fiscale e maggiore la spesa, cioè maggiore il deficit, tanto più propbabile che gli aumenti siano effettivamente tre. Vedremo. Per intanto aspettiamo le dichiarazioni del president-elect il 20 gennaio, giorno del suo insediamento (che brutta parola!).