Un breve post, a commento di quanto scritto da Gianmarco Carnovale, sul tema della localizzazione delle startup nel nostro Paese. E’ un dibattito che emerge di frequente, tra quanti sostengono un modello concentrato in poche, se non addirittura una sola, area metropolitana e altri, i quali immaginano invece un modello “difffuso”, con startup che nascono e crescono un po’ ovunque.
Dal mio punto di vista, dico sì al concetto di startup city, perché è un dato empirico che, nel mondo, le startup nascano e crescano in aree metropolitane e non in modo diffuso. So che è un discorso difficile da far digerire in Italia, che quando si confronta su questi temi, è uno strano Paese davvero. Noi impariamo dai libri che esistono le economie di scala e di agglomerazione, ma poi pensiamo che, per qualche strana dispensa divina, non si applichino alla nostra Penisola. E, quindi, le imprese pensano di poter essere nane e competitive, così come ogni sindaco pensa di poter replicare la Silicon Valley all’ombra del proprio campanile.
Però, dico anche no all’idea che tutto debba nascere in una sola città. Bisogna stimolare e supportare l’imprenditorialità ovunque. Poi, gli imprenditori della cittadina di provincia che avranno i numeri per “fare il salto”, si spostino in un ecosistema più favorevole a far crescere la loro impresa. Se in Italia saremo capaci di far crescere un hub rilevante a livello internazionale, il lavoro fatto in periferia non sarà perso per nulla. Se invece dovranno migrare a Londra o San Francisco, i ritorni per il nostro Paese saranno non dico nulli, ma indubbiamente inferiori.
► L’editoriale di EconomyUp che ha aperto il dibattito
Infine, dico assolutamente no alla sola idea che la politica nazionale possa scegliere dove debba nascere la startup city italiana, soprattutto se dietro a questa sciagurata decisione dovessero seguire degli investimenti. I policy-maker nazionali hanno abbastanza da fare se vogliono creare le condizioni economiche e giuridiche affinché gli l’imprenditori si lancino nell’impresa. Siano invece le amministrazioni locali a decidere se e come scommettere e investire sulle startup, mettendosi in virtuosa concorrenza con altri territori. Inoltre, la scelta fatta dai politici e dai loro consulenti, per quanto qualificati, sarebbe sicuramente errata, perché nessuno di noi ha la sfera di cristallo: solo il mercato potrà far emergere quali dei poli italiani (e non ci sono solo Milano e Roma!) avrà i numeri per competere sulla scena internazionale. Il motivo per cui dico ciò è molto semplice: per avere un polo competitivo, non sarà sufficiente avere un ecosistema con una data “massa critica”, il che renderebbe banale la scelta (Milano). Affinché abbia rilevanza internazionale, la startup city italiana dovrà essere sufficientemente differenziata rispetto agli altri hub globali, dando alle sue startup uno specifico vantaggio competitivo e attraendone anche dall’estero. Questo significa riuscire ad azzeccare l’intersezione tra un futuro settore emergente della tecnologia (che determini una domanda forte), e un radicamento sinergico con il tessuto economico esistente (che porti a un’offerta robusta). In questi ambiti, io credo che avesse ragione Friedrich von Hayek quando sosteneva “… the market is essentially an ordering mechanism, growing up without anybody wholly understanding it, that enables us to utilize widely dispersed information about the significance of circumstances of which we are mostly ignorant. However, the various planners (and not only the planners in the socialist camp) and dirigists have still not yet grasped this.”
* Marco Cantamessa è Chairman e CEO di I3P, incubatore del Politecnico di Torino