“I’ll hammer the nails, I’ll set the stone I’ll harvest your crops, when they’re ripe and grown
I’ll pull that engine apart, and patch’er up ’til she’s running right
I’m a jack of all trades, we’ll be all right”
Bruce Springsteen – Jack of All Trades, Wrecking Ball, 2012
Uno dei pezzi di saggezza che Mao Tze Dong amava condividere con il suo popolo recitava grosso modo così: “Grande è il disordine sotto il cielo. La situazione è dunque eccellente”. [Tradotto in businessese: ci sono tante sfide, ma anche tante opportunità] La situazione è eccellente perché consente, a chi ne è capace, di mettere ordine. Luciana Maci ha documentato che il disordine in materia di definizione di cosa sia sharing economy è davvero notevole, e dunque me ne guardo bene dall’affrontare il problema. Preferisco fare la figura del cialtrone che scrive a proposito di qualcosa che non sa cosa sia o, quantomeno, che non ha definito ancora con sufficiente accuratezza.
Il quesito è lo stesso che già posi nel mio primo pezzo sulla sharing economy: “E’ davvero (…) un paradigma nuovo di potenza e di importanza comparabile al capitalismo (e al feudalesimo, aggiungo io)? In che cosa è diversa dal socialismo? Quali ne sono le implicazioni sociali di lungo periodo?”
Per essere il “successore” del capitalismo, deve necessariamente essere un “modo di produzione”?
Chiedo la comprensione di chi legge ricordando che per ora mi accontento della definizione nazional-popolare di ‘shared economy’, cioè quell’universo di migliaia di esempi e aneddoti con cui vengo bombardato ogni giorno. Tutti sanno cos’è, no? Procediamo. Solo verso la fine userò un esempio.
Il punto alto nella modellazione delle forme dell’organizzazione sociale è il concetto di ‘modo di produzione’. Quello capitalistico è un modo di produzione; così era quella feudale (diverso); così quello socialista (per quel che ne abbiamo visto e capito, un altro ancora). Perché voglio partire dal concetto di ‘modo di produzione’? Semplice: perché la storia umana è uniformemente storia di voglia di più cose, migliori, più sane, più belle. Cose che abbiamo dovuto produrre, aggiungendo valore a materia prima mediante l’uso di lavoro e di mezzi di produzione che, nel capitalismo, chiamiamo capitale. Il nocciolo della questione è: produrre come? Non mi riferisco qui al quesito banale su quale debba essere la tecnica migliore, quanto al quesito nobile: in che rapporto sociale stanno tra loro i fattori della produzione?
Come dice la parola stessa, nel capitalismo ci sono i capitalisti, che posseggono i mezzi di produzione, e il lavoro, che non ne possiede, e quindi produce reddito per sé (salario) e per i capitalisti (profitto) operando i mezzi di produzione di proprietà del capitalista. Il succo, qui, non sta nella storia, di ovvia derivazione marxiana, ma nel fatto che ci si organizza in un certo modo per produrre.
Ultimo quinto del XX secolo: entra la stagnazione secolare e, con lei, sharing economy
E con la sharing economy, si produce? Come cambia il modo di produzione nel passaggio dal capitalismo alla sharing? Incidentalmente: ricordiamo che, se mai dovessimo arrivare alla conclusione che in effetti la sharing è un modo di produzione che progressivamente soppianterà il capitalismo, ebbene sarebbe qualcosa di totalmente inatteso rispetto alle previsioni: le quali consistevano di scenari in cui i mezzi di produzione venivano nazionalizzati, i lavoratori avrebbero lavorato con mezzi di produzione non più posseduti privatamente, e nei casi estremi, il comunismo, sarebbero stati essi stessi proprietari di tali mezzi. Sembra di poter dire che poco o nulla di tutto questo sia rintracciabile nella sharing. Ma il quesito rimane: si produce, con la sharing?
Avendo scelto di parlare di sharing senza sapere cosa sia, sarà dura arrivare ad una risposta univoca. Mi sembra però che collocare il problema storicamente possa essere utile. E la storia di oggi è storia di stagnazione secolare. Questa teoria sostiene che da circa trenta, quarant’anni i tassi di crescita dell’economia dei paesi ad alto reddito pro capite sono molto più bassi di quanto non fossero nel periodo 1870-1970. Il che si è tradotto in un eccesso di offerta di immobili industriali e da abitazione, un eccesso di offerta di capacità produttiva, un eccesso di offerta di lavoratori qualificati e soprattutto non, un eccesso di offerta di anziani. Tutto questo ha posto un problema non da poco: produrre è sempre meno profittevole. Non è profittevole produrre impianti industriali, abitazioni, beni di consumo. (Sarebbe forse profittevole riconvertire il patrimonio immobiliare esistente verso forme utilizzabili dalla popolazione anziana, ma il modello culturale legato alla crescita della popolazione giovane cui eravamo abituati non ci consente ancora di vederne necessità e potenzialità.)
Ma se produrre merci, patrimonio immobiliare, impianti industriali, è sempre meno profittevole, che si fa? Che tipo di economia costruiamo in alternativa? In breve, non possiamo mica impoverirci in mezzo all’abbondanza, no? La risposta sembra ovvia: un’economia che consumi ma che non produca. O quanto meno non produca ciò che tradizionalmente produceva e che esiste già in eccesso di offerta. Si tratterebbe dell’insieme di progetti economici ancora identificati e realizzati da agenti economici privati, i quali si inventeranno modi per attivare la domanda di tutto ciò che, alle condizioni date e ai prezzi dati, è in eccesso di offerta.
E qui, come previsto, un esempio mi serve proprio. Airbnb è un’impresa privata di tipo capitalistico che ha i propri dipendenti a cui paga un salario. Il suo prodotto consiste nel mettere in contatto domanda di spazio abitativo e offerta di tipi abitativi precedentemente non esistente su scala rilevante: aumenta la varietà dell’offerta di spazi abitativi, ne cade il prezzo e questo stimola la domanda. Quesito: è sharing questo? No, questo è affitto. O, a darne un’interpretazione più nobile, è un po’ di economia capitalistica (la ditta Airbnb) e tanta economia della rendita (che incassano i proprietari di abitazioni).
A questo punto i puri di cuore dicono che “comunque si è trovato un modo più efficiente di utilizzare l’esistente”. No: si è trovato un modo profittevole per i proprietari di abitazioni di utilizzare le stesse offrendole in affitto a chi, alle condizioni precedenti, non avrebbe avuto la possibilità di fare cose che richiedessero ospitalità temporanea. Non è un modo né efficiente né inefficiente, è un altro modo: la fonte del reddito dei proprietari di abitazioni è la rendita, non il profitto. È l’emergere di un nuovo modo di organizzare la società: i capitalisti contano progressivamente meno, i proprietari di appartamenti sempre di più. Che questo sia un bene o un male non è problema ancora affrontabile. Certo so già però che non sarà un fatto positivo o negativo per tutti. O per tutti nella stessa proporzione.