C’è, nell’editoriale del primo numero del Corriere della Sera rinnovato – 24 settembre – una chiave di lettura interessante del blitz di Matteo Renzi nella Silicon Valley.
Ferruccio De Bortoli, il direttore che lo firma, non fa alcun riferimento alla missione americana, né tantomeno all’innovazione tecnologica. Scrive de Bortoli: «(Renzi) Se vorrà veramente cambiare verso a questo Paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso».
E ancora: «L’oratoria del premier è straordinaria, nondimeno il fascino che emana stinge facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa. Il marketing della politica se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso. In Europa, meno inclini di noi a scambiare la simpatia e la parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti». Ecco, non vorremmo che se ne accorgessero anche negli Stati Uniti, terra del pragmatismo. Non vorremmo che se ne fossero già accorti nella Silicon Valley, angolo dorato di uno Stato (la California) sbarazzino e visionario forse ma certo attento alla sostanza.
C’è stato tanto entusiasmo attorno alla missione di Renzi e anche noi di EconomyUp lo abbiamo in parte condiviso. È stato sicuramente una scelta importante quella di parlare al cuore della digital economy. Ma per andare oltre l’oleografia da Istituto Luce del premier social, che “conquista” Twitter e strappa impegni non meglio definiti al suo boss Dick Costolo, bisogna domandarsi: quale idea ha lasciato Renzi agli americani più avanzati del mondo? Che cosa resta e resterà di tanto entusiasmo? Per dirla con De Bortoli è stato marketing politico utile o solo cosmetico e dannoso?
Di certo il premier ancora una volta ha fatto affidamento sulla sua oratoria (anche se in inglese perde un po’di efficacia…) e sulla sua simpatia. Ma, oltre alla “parlantina, non pare abbia portato molto di più ai suoi ospiti americani. Che sanno già che l’Italia è bella, che ha una grande storia, che è terra di talenti. Forse avrebbero voluto sentirsi raccontare progetti, idee, visioni, impegni precisi e non vaghi. “Cambieremo questo Paese” è forse un ottimo slogan politico ma certamente risulta poco sexy per i businessman della West Coast (e non solo per quelli…). Eppure lo hanno accolto a braccia aperte. Anche lì dove non era prevista la sua presenza. E stiamo pensando a Google, che non compariva nel programma ufficiale. Solo per una variazione dell’ultima ora o per cautela politica?
A questo punto conviene togliersi i panni nazionali e ricordare che in questo momento Matteo Renzi è anche alla guida dell’Unione europea. E con Bruxelles le nuove multinazionali digitali hanno numerose partite aperte, dalla privacy al fisco. Non passa giorno che non ci sia una scaramuccia. Il Financial Times ha persino trovato una giustificazione culturale per la resistenza, dando spazio all’appello del sociologo Evgenij Morozov che dice: con Google la guerra è politica, non solo di mercato. Inutile ricordare quanta sia permanente la tensione sull’elusione fiscale, sulle risorse “estratte” dai Paesi in cui Google&Co operano e non ripagate in termini di tasse.
E a questo proposito forse è il caso di ricordare che Renzi è stato il presidente del Consiglio che, appena designato e con un tweet, ha stoppato la cosiddetta webtax, detta anche non a caso GoogleTax. Renzi ha riconosciuto che un problema di fiscalità esiste, ma lo ha sempre rinviato a un livello europeo. Quello in cui adesso si sta muovendo. Facile pensare che nella calorosa accoglienza in Silicon Valley ci sia stato un misto di riconoscenza e di corteggiamento. Il lavoro dei lobbisti non si ferma mai e un viaggio così importante come quello negli States è un momento importante per scambiare idee e messaggi.
Insomma, conviene uscire dalla bolla di innocenza in cui sembra essersi svolto il viaggio in Silicon Valley. Da una parte il premier sorridente e scanzonato, dall’altra le centinaia di emigrati digitali che dicono “Presidente siamo qui, ci usi” Ma cosa vuol dire una volta che finisce la favola?