Cinquantacinque chilometri è una distanza relativamente breve, meno di un’ora di auto o di treno. Cinquantacinque sono i chilometri che separano Piazza del Duomo a Milano con il centro di Chiasso, prima città svizzera dopo il confine. Cinquantacinque chilometri che però rappresentano anche un abisso quando si guarda alla facilità di creare un’impresa.
L’Index of Economic Freedom 2015 dice che la Svizzera è al quinto posto tra i migliori Paesi in cui fare business al mondo, l’Italia è 80esima. DoingBusiness della World Bank dice che nel 2015 la Svizzera è 20esima e l’Italia 56esima, rispetto al 2014 la Svizzera ha guadagnato due posizioni, l’Italia ne ha perse 4. Secondo la classifica di Forbes la Svizzera è nona, l’Italia 38esima .
Più delle posizioni nelle classifiche sono impietose le analisi e i commenti come quelli del World Economic Forum che nel suo recentissimo rapporto The Inclusive Growth and Development Report 2015 così definisce l’Italia : “Italy faces a significant concern, which has implications for many other areas, in its high level of corruption and poor business and political ethics – among the worst of all advanced economies. Unemployment is high and accompanied by large numbers of involuntary part-time workers and people in informal and vulnerable employment situations. Women’s participation in the workforce is extremely low, reinforced by a gender pay gap that is one of the largest among advanced economies. There is limited business creation to foster new employment opportunities, nor is the financing for doing so readily available. A social protection system which is neither particularly generous nor especially efficient adds to the sense of precariousness and exclusion in the country”. “Alti livelli di corruzione e mancanza di etica negli affari e nella politica” dice il rapporto sottolineando anche la limitata creazione di business, il precariato, la bassa partecipazione delle donne alla forza lavoro.
Il peggio però deve ancora venire ed è sempre il World Economic Forum a fornire senza pietà una fotografia del nostro Paese che si può definire solo disastrosa con l’elenco dei governi più efficienti e meno efficienti del mondo apparso nel Global competitiveness report 2014 e dove per efficienza del governo si considerano diversi parametri compreso lo spreco di denaro pubblico, il gravare delle regolamentazioni e la trasparenza delle politiche. Ebbene in questa classifica la Svizzera appare come il nono migliore governo al mondo mentre l’Italia appare come il secondo peggiore. Il secondo peggiore! Solo il governo di Caracas è meno efficiente di quello di Roma.
Certo ora si potrebbe aprire un ampio dibattito, analisi, puntualizzazioni su come questi dati sono raccolti, analizzati, confrontati ecc ecc, e di certo qualche rilievo o precisazione salterà fuori ma il punto è: questi rapporti li leggono tutti: aziende, uomini di business, chiunque debba prendere decisioni e le organizzazioni che li realizzano, pubblicano e distribuiscono godono anche di una certa reputazione e riconoscimento. Quindi il punto è: ma perché l’Italia è messa cosi male? E soprattutto perché da quando vi ricordate di avere iniziato a leggere queste classifiche l’Italia è sempre stata messa male? Perché siamo sempre, quando va bene, a metà classifica? Perché ci sono Paesi che fino a ieri consideravamo del terzo mondo che ci stanno ampiamente superando? Perché quei 55 chilometri sembrano una distanza quasi astrale, da misurare in anni luce? E soprattutto perché quei 55 chilometri sono l’imboccatura di una strada che in molti dall’Italia stanno prendendo: studenti, ricercatori, scienziati ma anche aziende intere comprese quelle innovative che nate in Italia vanno poi a raccogliere i frutti del loro successo traslocando in Svizzera o comunque all’estero (leggi Bravofly, Arduino, Yoox e altre che si stanno rapidamente accodando) (il numero dei migranti italiani ad alto reddito verso la Svizzera è raddoppiato tra il 2002 e il 2012 come riporta #truenumbers da fonte Ocse, passando da 6mila a 13mila e 600).
Non può essere una questione di riconducibile solo all’incertezza dei governi, che comunque hanno una parte significativa di responsabilità, perché tutto ci dice che questo scenario si è incancrenito e quindi ci deve essere dell’altro, probabilmente si tratta di una sottostruttura che tiene ancorato il Paese a dinamiche ormai eccessivamente anacronistiche e consunte e che ne impedisce in modo intestinale il rinnovamento. Fino a che queste dinamiche che possiamo chiamare in molti modi: difesa dello status-quo, indurimento delle rendite di posizione, espansione del controllo governativo a territori in cui si ha bisogno di tutto tranne che dell’intervento pubblico che spesso è anche privo delle necessarie competenze, mancanza di rendicontazione dei risultati e della capacità di valutare gli eventuali errori e correggere la rotta, ogni organizzazione fa errori, quelle sagge li riconoscono, li ammettono, li correggono, quelle ottuse fanno finta di nulla, nascondono gli errori, danno la colpa a fattori esterni e non discutono mai i risultati, finché tutto ciò non subirà un forte e radicale cambiamento sarà assai difficile per il Paese accelerare sulla strada dell’innovazione e scalare le posizioni di quelle classifiche. Non è però nemmeno la sola paura del cambiamento che ha ancora molta parte del Paese a essere causa di ciò, ci sono anche fattori culturali e di mentalità che devono trovare nuovi assetti come bene enfatizza un articolo di recente uscito su CapX sul perché l’Italia non è un Paese per la sharing economy .
Pura del cambiamento, incertezze culturali, indecisioni di governo sono le forze che tengono tirato il freno a mano del processo di innovazione di un Paese che ha una grandissima voglia e un grandissimo bisogno di correre a tutta velocità verso il cambiamento e l’innovazione, un Paese che non può più considerare accettabile che la pubblica amministrazione non paghi i suoi debiti verso le imprese, che non può più accettare che fare investimenti, soprattutto nelle regioni del sud, venga considerato alla stregua di un atto di coraggio invece che una cosa normale, che non può attendere le lentezze e le bizzarrie della burocrazia, che non può permettersi di aspettare che il ricambio generazionale si compia.
Dobbiamo correre, accelerare, sganciarci da lacci e lacciuoli, dobbiamo mettere il Paese nelle mani di chi vede il futuro e abbraccia il cambiamento, di quelle persone che oggi preferiscono affrontare l’incertezza di andare all’estero piuttosto che quella di essere soffocati da un sistema finito che lotta per allungare la sua agonia, perché se così non facciamo quei 55 chilometri continueranno ad allungarsi fino a divenire incolmabili.