TECNOLOGIA SOLIDALE

Qualche “quesito” sulla firma online per i referendum: il digitale e la democrazia

In pochi giorni il referendum sulla legalizzazione della cannabis ha quasi raggiunto le 500 mila firme necessarie, grazie al digitale. Ma è vera partecipazione politica? Come evitare che dalla Rete avanzino proposte demagogiche? Il nuovo strumento serve a far crescere la fiducia nelle istituzioni?

Pubblicato il 17 Set 2021

Photo by Element5 Digital on Unsplash

“In questi giorni, in particolare grazie a questo referendum tutto online sulla cannabis, la stampa italiana ha scoperto che il popolo sovrano, quando ha a disposizione strumenti semplici ed efficaci, non si sottrae a partecipare alla vita politica.”. Così si è espresso giovedì a Milano Marco Perduca, presidente del comitato promotore del referendum per la legalizzazione della cannabis.

È davvero così? Ho provato il sistema (fermandomi prima di firmare) ed è veramente di una semplicità estrema. Anche in questo caso il digitale semplifica la vita, visto che in soli cinque giorni i promotori di questo referendum hanno superato le 465.000 firme digitali, arrivando a un passo dal traguardo delle 500.000 firme occorrenti.

Firma online per i referendum, è vera partecipazione politica?

Questo successo genera una serie di quesiti non referendari. Abbiamo a che fare con una tecnologia davvero solidale, perché rivitalizza la partecipazione alla politica dei cittadini o si tratta semplicemente di una versione più evoluta, perché istituzionalmente riconosciuta, del cosiddetto click activism? Siamo di fronte a una situazione inedita, in cui una minoranza attiva può sfruttare le potenzialità digitali per (im)porre un tema all’intero Paese? Oppure si tratta della nuova modalità espressiva di una sorta di “populismo tecnologico” che delegittima ulteriormente il Parlamento e noi parlamentari, che già non ce la passiamo bene nella considerazione popolare?

Andranno in Rete proposte demagogiche e persino illegittime?

Firma online per i referenEntusiasmo (più che comprensibile, anzi, doveroso) dei promotori a parte, il dubbio è stato avanzato per la prima volta martedì 14 settembre peraltro da una testata che sostiene il referendum, Il Manifesto. Nell’articolo di Andrea Fabozzi dal titolo “Firme online, un successo problematico”, l’autore scrive che la raccolta firme digitale, “potrà consentire anche a un piccolo gruppo di amici, senza alcuna rappresentatività, di lanciare in rete qualsiasi proposta di referendum. E di farlo gratis da quando, entro il prossimo gennaio, sarà attiva la piattaforma governativa per le sottoscrizioni online. Anche la proposta più demagogica e persino illegittima potrebbe incrociare la corrente ascensionale della rete….Con le firme online l’istituto referendario è cambiato, fare finta di non vederlo non è saggio. Anche se questa volta è per una buona causa.”.

Il digitale obbliga a essere più “intelligenti”

Vero è che rimangono tuttavia i due paletti o baluardi (a seconda dei punti di vista) che delimitano il campo d’azione delle minoranze referendarie digitalmente attive: il controllo della legittimità del quesito referendario da parte della Corte costituzionale e il raggiungimento del quorum di partecipanti al voto in caso di effettiva celebrazione del referendum. Due clausole di salvaguardia costituzionali che servono proprio per evitare abusi dello strumento. Tuttavia ancora una volta il digitale ci spiazza e spazza via certezze consolidate, obbligandoci a essere più “intelligenti” e meno abitudinari e ordinari. Non è un male. Inoltre sono convinto che in una democrazia sia sempre una buona cosa discutere di temi realmente importanti.

Con la firma online la democrazia diretta sorpassa quella rappresentativa

In generale però la raccolta firme digitale per i referendum pone un poderoso tema politico: il superamento di Governo e Parlamento, il sorpasso della democrazia diretta su quella rappresentativa. A questo si aggiunge un altro dubbio: è davvero un bene modificare con l’accetta referendaria leggi che riguardano temi profondamente controversi, che non solo dividono tra loro i partiti ma li spaccano al loro interno, con il risultato di avere poi immediatamente vigenti leggi peggiori delle attuali e che, proprio a causa di tale spaccatura politica e della pronuncia popolare, potrebbero non essere poi facilmente “aggiustabili”? Perché un conto sono le promesse referendarie, ben altro è il risultato legislativo che deriva dalla soppressione di parte di leggi in essere.

Credo siano domande da porsi. Altre ancora ne vengono. Questo nuovo strumento serve a far riguadagnare ai cittadini fiducia nelle istituzioni? Sono una forma di “organizzazione dal basso” che può potenziare società e vita comunitaria? Attivano un “conflitto costruttivo” o esasperano le divisioni? Esaltano la capacità di ascolto e di dialogo oppure sono nella scia di quel conflitto permanente che sembra essere la cifra dominante della politica nei social?

Quante domande. Per agevolare le risposte, organizziamo un referendum?

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Antonio Palmieri
Antonio Palmieri

Antonio Palmieri, fondatore e presidente di Fondazione Pensiero Solido. Sposato, due figli, milanese, interista. Dal 1988 si occupa di comunicazione, comunicazione politica, formazione, innovazione digitale e sociale. Già deputato di Forza Italia

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