Mi diceva qualche giorno fa un top manager di una grande banca tornato in Italia per fondare una startup: “Durante la mia carriera ho lavorato in molti Paesi e mi ha sempre colpito il fatto che nelle conversazioni abituali la domanda fosse: che cosa dobbiamo fare per essere tra i primi cinque al mondo fra 10 anni? Non mi pare che la stessa tensione verso il futuro guidi il pensiero e l’azione in Italia…” (per la cronaca, la manifattura Made in Italy resiste al settimo posto nella classifica del WTO).
Che Paese vogliamo essere?
È la domanda che troppo poco ci poniamo e che attraversa ossessivamente il nuovo libro di Alfonso Fuggetta, docente di informatica al Politecnico di Milano, amministratore delegato del Cefriel, che già nel titolo propone la sua risposta: Il Paese Innovatore (Egea). Ma come e, soprattutto, perché?
La questione non è di poco conto specie nelle settimane in cui va l’altalena MES sì, MES no. Quando si fermerà, arriveranno dall’Europa risorse come mai accaduto in passato: risposta eccezionale ad accadimenti straordinari. Perché non siano impegnate solo come “ricovero” dal virus serve una visione del futuro possibile.
Non dimentichiamo che il Recovery Plan si intitola “Next Generation Eu”. Qual è la vision italiana?
Che Paese vogliamo essere? La presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen ci ha ricordato i compiti da fare in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi: “È giunto il momento per l’Italia di riprendere le redini del suo futuro e contribuire alla ripresa collettiva dell’Europa». Cosa serve? «La volontà di varare riforme e di adottare un approccio strategico agli investimenti»
“Può l’innovazione essere uno strumento per costruire un Paese diverso capace di rispondere alle istanze delle persone, solidale moderno, in grado di promuovere la “ricerca della felicità”? Ovviamente la risposta dell’autore è sì. “L’innovazione non declamata o ridotta a slogan è uno snodo essenziale, anche se non l’unico per affrontare concretamente i tanti problemi che ci affliggono. “Grazie all’innovazione il nostro tessuto economico può trovare nuova linfa e offrire benessere ai cittadini. Grazie all’innovazione le amministrazioni e le istituzioni possono adempiere pienamente al loro mandato a servizio della società civile. Grazie all’innovazione possiamo combattere e contrastare i problemi che da tempo fiaccano e dividono il Paese”.
Abbiamo bisogno di un Paese Innovatore ma non abbiamo ancora capito quale ruolo debba avere lo Stato.
Siamo in un momento in cui troppi si attendono troppo dalla mano pubblica. Il Paese Innovatore è in qualche modo un’immagine che si contrappone a quella dello Stato innovatore proposta negli anni scorsi dalle note analisi di Marianna Mazzucato, economista che nella scorsa primavera ha bazzicato la mitologica task force di Vittorio Colao. Fuggetta si toglie qualche sassolino dalla scarpa: “Il governo USA è un grande investitore e finanziatore della ricerca, ma non è certo lui che trasforma in prodotti i risultati di questi investimenti”. E ricorda la “leggerezza” delle ricche agenzie statunitensi: DARPA, la “mamma” di Internet, ha un budget di oltre tre miliardi di dollari ma poco più di duecento dipendenti. NSF, che finanzia la ricerca di base delle università con oltre otto miliardi, ha meno di duemila dipendenti. Quindi lo Stato Innovatore non è uno Stato Imprenditore ma certamente dovrebbe essere un buon compratore di servizi e prodotti hi-tech.
Il Paese è più dello Stato, dice il titolo di un capitolo del libro di Fuggetta, che arriva a proporre il suo manifesto di idee e proposte per il futuro dell’Italia:un decalogo che abbiamo già anticipato, che può trovare o non trovare d’accordo ma che ha l’ambizione e il merito di mettere in ordine una quantità di urgenze, istanze e obiettivi che circolano nell’ecosistema dell’innovazione ma stentano ancora a trovare una loro adeguata rappresentanza politica. Un compito “da far tremare le ginocchia a chiunque sia dotato di buon senso”, riconosce Fuggetta, che pure non si tira indietro. Se quasi due anni fa, in un precedente libro aveva messo al centro la cittadinanza digitale, adesso l’attenzione è concentrata sulla società digitale, sull’innovazione nelle imprese e non solo.
C’è qualcosa che spesso sfugge a chi, come me e come noi, è entusiasta osservatore della tecnologia e delle sue evoluzioni.
“Di fronte alle sfide della trasformazione economica e sociale che viviamo, molti hanno paura di perdere quanto conquistato nei decenni scorsi e di dover affrontare un futuro che apre ignoto, pieno di insidie e povero di sicurezze”,
Scrive ancora Fuggetta. “Altri si sentono esclusi dai processi di modernizzazione e dal benessere che, hanno attraversato il Paese. Per altri ancora quanto sta accadendo non fa che approfondire il solco tra chi “sta bene” e “chi sta male”. Si comprende quindi il rifiuto, il desiderio di difesa e di una reale inclusione che porti benefici a tutti e non solo a pochi”.
La pandemia ha rivelato questi rischi, nello smart working come nella didattica a distanza, ma allo stesso tempo ha posto la necessità di essere un Paese Innovatore capace di cogliere le opportunità delle tecnologie digitali proprio per ridurre le diseguaglianze attuali e potenziali.
Dobbiamo cambiare e innovare per necessità, perché il mondo corre, nonostante noi. Ma, avverte Fuggetta, dobbiamo cambiare e innovare soprattutto per virtù. “Lo sviluppo tecnologico ed economico ha certamente creato tensioni e squilibri, ma è anche un’opportunità unica per migliorare la qualità della vita di tutte le persone”. Non possiamo che essere un Paese Innovatore, quindi. Forse dobbiamo preoccuparci più spesso di spiegare perché.