Sono le 14:28 dell’8 settembre e, come tutti i fedeli, mi collego per ascoltare le litanie cantate da Mario Draghi. So bene che questo non sarà un 8 settembre drammatico, niente a che vedere con quello vero del 1943. E che io lo sappia, lo dimostrano gli articoli che ho scritto sulla irrilevanza della politica monetaria dal 2008 in avanti, cioè in quella condizione che chiamiamo ‘trappola della liquidità’. Ma non sarei un fedele se non mi collegassi, giusto? E che cosa imparo dall’omelia?
Imparo, anzitutto, che Draghi è un uomo sofferente. Mi appare infatti sempre più afflitto; sempre più frequentemente una persona del suo entourage gli deve ripetere o spiegare un quesito posto da un/una giornalista; ci sono state situazioni in cui il vicepresidente ha dovuto articolare una risposta comprensibile dopo una poco chiara del presidente; mi appare, insomma, come uno che vorrebbe fare politica monetaria efficacie, ma si rende ben conto che quella che lui comanda non avrà gli effetti che la vecchia, pre-2007, aveva (o pensavamo avesse).
Imparo poi che il rumore prodotto e alimentato da politici e funzionari di dubbia autenticità e diffuso dai giornalisti è, per l’appunto, rumore. Hanno scritto che la Bce avrebbe annunciato l’estensione del programma di acquisto di obbligazioni pubbliche e private oltre il limite del 31 marzo 2017. Ovviamente non l’ha fatto: ma chi annuncerebbe la sconfitta delle proprie politiche sei mesi prima del necessario? Forse non proprio all’ultimo minuto, forse un paio di mesi prima lo farà, ma perché farlo ora con la Fed che deve uscire dalla sua angoscia ‘alzare-o-non-alzare’ e le elezioni Usa a sessanta giorni, elezioni che potrebbero produrre risultati imprevedibili (non mi riferisco soltanto a una presidenza Trump, mi riferisco al fatto che sia l’un candidato che l’altro potrebbe suscitare reazioni pesanti da parte dei mercati)?
Imparo che ormai la retorica del successo della politica monetaria ignora bellamente i limiti del ridicolo. Si presenta come evidenza di un successo la revisione della previsione del tasso di crescita del Pil reale 2016 dell’area euro dall’1,6% all’1,7%; si sostiene che l’andamento dell’inflazione (ma quale?) è in linea con le previsioni, quando è invece vero che un anno fa si prevedeva che oggi sarebbe stata molto più alta di quanto non sia; si presenta come un successo il tasso di crescita patetico dei prestiti alle famiglie e alle imprese; e chi più ne ha più ne metta.
Ma imparo anche, per fortuna, che Draghi non ha dimenticato la buona teoria economica. E lo so perché la parte veramente rilevante del suo discorso recita così: è importante che altre aree della politica economica si attivino ecc cc. Quali parti? Beh, ce ne sono solo due: le espansioni fiscali e le riforme strutturali. Poi si dilunga sulla riforme strutturali, facendo finta di credere che quella della scuola media inferiore, o del sistema carcerario, faranno ripartire l’attività economica. Ma non si esime dal discutere dell’altra area, e dice a chiare lettere che i governi nazionali che ne hanno la possibilità dovrebbero sfruttare i propri margini di bilancio. (E aggiunge: la Germania ha questi margini).
Ho imparato, in sintesi, che la Bce continua a celebrare riti stanchi, irrilevanti, che nulla di buono lasciano prevedere.
Detto tutto questo, e avendo imparato tanto poco, c’è un quesito che mi preme discutere, un quesito che Draghi ha detto non essere stato discusso dal comitato direttivo: il passaggio a un quantitative easing che preveda l’acquisto di azioni, oltre che di obbligazioni pubbliche e private, come avverrà ancora fino a fine marzo 2017. Oggi posso solo accennare a questo problema, ma ci torneremo sopra presto.
Parto dalla storia, che circola da tempo, secondo cui il passaggio all’acquisto di azioni sarebbe reso necessario dal fatto che il mercato delle obbligazioni comincia a soffrire di scarsità di offerta. Questa è una proposizione grave, in quanto non sottende una carenza semplicemente contabile. Mi spiego. Le obbligazioni sono pezzi di carta sui quali è scritta una promessa di rimborso a una data futura. Se un’azienda (o un governo in un mondo ragionevole, non in questo di austerità fino alla morte per inedia pur di non indebitarsi) osserva che il mercato si accontenta di rendimenti nulli o addirittura negativi, quel che fa è emettere debito fresco: leggo dal Financial Times che Henkel (tedesca) e Sanofi (francese) hanno appena emesso o stanno per mettere obbligazioni con rendimento nullo a scadenza. Normale, no? Non sono i tassi bassi quelli che attivano la voglia di indebitarsi? Chiunque abbia delle idee in zucca si indebita a queste condizioni, no? Ne consegue che lo stock di debito a disposizione per l’acquisto da parte della Bce non è dato, ma risponde alla domanda crescente, cioè ai rendimenti decrescenti. Assumere che non ‘ve ne siano abbastanza’ implica assumere che le imprese non aumenteranno l’emissione di debito secondo il modello appena descritto: ma questo sarebbe grave assai, sarebbe un’altra dimostrazione ancora dell’impotenza del QE e dei suoi epigoni, così come indicatore del fatto che le imprese non intendono tornare ad investire, cioè a crescere.
Se, dunque, si dovesse cominciare a pensare a un QE che prevedesse anche acquisto di azioni, non sarebbe soltanto per scarsità di obbligazioni: la Banca Centrale Svizzera lo fa da tempo, e qualcuno mi vuol raccontare che non ha più obbligazioni da comprare? No, è una scelta politica. Di politica economica, certo, ma pur sempre una scelta che cambierebbe radicalmente il paradigma entro cui siamo abituati a pensare. Siamo abituati infatti a pensare secondo categorie che ritenevamo eterne, quali il famoso ‘rischio imprenditoriale’. Chiediamoci: dove finirebbe il rischio imprenditoriale a fronte dell’ingresso sul ‘mercato’ di un compratore di azioni delle dimensioni e della potenza della banca centrale? Non succederebbe forse quel che è successo alle obbligazioni, il cui prezzo è (ovviamente) salito talmente tanto perché la domanda ‘pubblica’ garantisce quegli aumenti alla domanda privata? Mi sembra un quesito incredibilmente importante, di fronte al quale perfino George Orwell vacillerebbe.
Nel cinquantesimo anniversario del primo episodio di Star Trek, sembra più che mai opportuno dire To boldly go, where!?