Open Innovation, perché è importante creare i distretti dell’innovazione

Condividere uno spazio fisico favorisce la nascita di startup e la collaborazione con le università. Ma non basta: sono almeno cinque i pilastri su cui costruire un distretto dell’innovazione. È possibile in Italia? Sì, ma servono scelte lungimiranti e coraggiose da parte dei policy maker

Pubblicato il 21 Nov 2018

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Giovedì 29 novembre viene presentata a Milano la Survey Innovation 2018 degli Osservatori Startup Intelligence e Digital Transformation Academy del Politecnico di Milano. L’agenda dell’evento prevede l’intervento “Una strategia per l’open innovation” di Stefano Mainetti, CEO del Polihub, che in questo articolo anticipa alcuni dei temi su cui condurrà la sua analisi. Questo è il terzo di una serie di articoli pubblicati su EconomyUp.

Dopo aver introdotto il tema dell’Open Innovation, illustrando quali siano le sfide legate all’innovazione per le aziende che vogliono rimanere competitive sul mercato odierno, e argomentato sul perché le università siano dei poli di riferimento quando si parla di innovazione, ci focalizziamo in questo terzo articolo sui distretti dell’innovazione e quindi su quanto sia importante concentrare in aree geografiche specifiche gli attori fondamentali degli ecosistemi capaci di produrre innovazione. Più precisamente ci chiediamo come sia possibile favorire l’attivazione di sinergie virtuose in un ecosistema volto all’innovazione, vale a dire favorire finestre di opportunità per tutti gli stakeholder coinvolti (startup, investitori, aziende, istituzioni…).

Come attivare sinergie e contaminazione in un ecosistema

Come può essere attivata la fioritura di un ecosistema in grado di abilitare la contaminazione di idee, competenze, know-how e risorse che possono essere messe in campo da tutti gli attori coinvolti?

Esaminando i meccanismi di attuazione di fenomeni di Open Innovation, outbound ed inbound, ciò che emerge è come sia spesso fondamentale la presenza di luoghi fisici che abilitino le interazioni più o meno casuali tra i vari attori dell’innovazione; un po’ come accade ai processi di coltura delle cellule in cui è necessario un supporto fisico, il terreno di coltura appunto, per permettere alle colonie di crescere e proliferare.

Nei casi più famosi, quali ad esempio Boston o Philadelphia, si è dimostrato fondamentale concentrare in spazi geograficamente circoscritti le migliori condizioni necessarie per favorire lo sviluppo di startup e la collaborazione virtuosa con università, centri di ricerca, investitori e aziende sensibili al tema dell’innovazione. Questo modello di concentrazione si sta rivelando particolarmente efficace se a trainare lo sviluppo dell’area intervengono più player istituzionali di riferimento come università, centri di ricerca ed ospedali, che fanno fronte comune, condividendo la stessa area e attraendo altri attori che iniziano a gravitarvi attorno.

Che cos’è un distretto dell’innovazione

Nelle economie moderne quindi, tale terreno di coltura sta assumendo la forma del Distretto di Innovazione, definito come un’area geografica in cui le imprese all’avanguardia si aggregano e si connettono con startup, incubatori, università, laboratori, istituzioni ed attori economici per condividere know-how ed attività di R&D. In questo modo risulta quindi possibile abbattere tempi e costi per la generazione di innovazione, come già Henry Chesbrough aveva teorizzato in “The era of open innovation” pubblicato nel 2003.

Diversi studi hanno già dimostrato in passato come, la prossimità fisica tra aziende ed università, sia un driver fondamentale nell’ingaggio dei due attori in progetti di ricerca e innovazione. D’altronde la Terra non è piatta soprattutto quando si parla di conoscenza. È dimostrato, infatti, che essa non è uniformemente distribuita a livello globale, e nemmeno all’interno delle stesse nazioni. Si veda ad esempio la distribuzione USA dei brevetti maggiormente referenziati:

Le invenzioni nascono dove si trovano le università

La figura è la riprova che le invenzioni nascono dove si trovano le università ed è proprio lì che in modo naturale dovrebbero nascere i Distretti di Innovazione. La vicinanza spaziale diventa una condizione essenziale su cui fare leva nel momento in cui si intende raggiungere una massa critica di connessioni sufficiente che abiliti delle dinamiche multi-attore con l’obiettivo di generare e commercializzare nuove idee.

È intuitivo, riflettendoci, che una maggiore concentrazione di ricchezza e risorse in termini di relazioni, know-how e talenti in una stessa area, porti inevitabilmente a generare maggior valore per l’ecosistema, grazie proprio alla facilità con cui gli scambi avvengono in maniera talvolta fortuita. Le best practice empiriche avvallano quanto è in realtà dimostrabile anche matematicamente rifacendosi alla teoria dei giochi di J. Nash, applicata alle dinamiche di qualsiasi distretto economico e industriale in cui si raggiunge un sostanziale equilibrio dal quale nessun attore ha interesse a muoversi.

Dovrebbe essere quindi compito dei policy maker favorire la nascita di questi luoghi dell’innovazione, poiché casi di successo storici, come la Silicon Valley, dimostrano che lo sforzo deve andare nella direzione della concentrazione e non della dispersione[2]. Un impegno notevole è richiesto ai regolatori, proprio perché i singoli attori tenderebbero per natura a perseguire un obiettivo di ricchezza individuale e di dispersione, che messo a sistema non porterebbe alla generazione di una maggior ricchezza e innovazione. La configurazione in cui si avviano relazioni a somma positiva si raggiunge più facilmente se un ente terzo rende conveniente per tutti aggregarsi, per lo meno all’inizio. Una volta innescato il meccanismo, il Distretto diventa un polo gravitazionale per altri attori ed il ciclo, infine, non può che essere virtuoso.

Open Innovation, i fattori di successo della collaborazione fra aziende, università e centri di ricerca

Come favorire la nascita dei distretti dell’innovazione

Vista la rilevanza strategica dei Distretti di Innovazione, esistono delle pratiche consolidate per progettarli e attivarli?

Con la nascita di sempre più numerose ed importanti aree sub-urbane in giro per il mondo, adibite a Distretti di Innovazione, stanno emergendo rapidamente nuove teorie su come queste iniziative dovrebbero essere progettate. Tralasciando la declinazione di tali spazi nelle specificità dei territori locali in cui si sviluppano, queste aree presentano globalmente delle caratteristiche spaziali comuni quali:

  • vicinanza a poli di produzione di conoscenza quali università, ospedali, centri di ricerca, centri culturali ed artistici, …;
  • concentrazione in un’area sub-urbana spesso in via di riqualificazione(tipicamente ex aree industriali con edifici adibiti un tempo a manifattura e magazzini);
  • elevata connessione urbana tramite mezzi di trasporto efficienti, derivata dalla necessità un tempo di collegare facilmente le industrie della zona;
  • presenza di servizi olistici per i fruitori dell’area che comprendono uffici, ristoranti, bar, palestre, negozi supermercati, librerie ecc….

Pur essendo elemento fondamentale per la concentrazione delle risorse e per le scelte dei policy maker, la fisicità è solo uno dei reagenti della nostra soluzione, che va completata con altri importanti pilastri.

I pilastri su cui costruire un distretto dell’innovazione

1. Education & Research

Molto abbiamo già detto circa i poli attrattivi che fungono da magnete per tutti gli altri, vale a dire quanto indicato nella figura conEducation & Research”, ovvero i generatori di conoscenza (nuove idee, brevetti, nuovi filoni di ricerca scientifica….) e di giovani talenti attori fondamentali nei percorsi di innovazione. In questo pilastro ricoprono un ruolo di fondamentale importanza anche i laboratori di ricerca, appositi spazi dotati delle più moderne attrezzature volti alle prove scientifiche e alle prime prototipazioni.

2. Enablers

Come catalizzatore di questa reazione troviamo gli “Enablers”, l’insieme di relazioni tra gli attori (aziende, individui ed istituzioni) che hanno il potenziale di generare, affinare e accelerare il progresso delle idee. E’ un network di relazioni forti e deboli. Per relazioni forti si intendono i legami tra persone appartenenti ad organizzazioni diverse con una storia lavorativa o professionale che abilita elevati livelli di fiducia. Tipicamente si instaurano tra persone disponibili a condividere informazioni più dettagliate e che sono più propense a partecipare alla risoluzione dei problemi congiunti. Sul versante di relazioni meno serrate, invece, troviamo interazioni tra persone o imprese che lavorano in contesti diversi o cluster economici differenti in cui vi è un contatto meno frequente. Le relazioni deboli forniscono l’accesso a nuove informazioni, nuovi contatti e rapporti commerciali al di fuori del network esistente. Il ruolo degli Enablers è quindi quello di favorire il network di relazioni interne e, nel contempo, di instaurarne di nuove creando relazioni con la maggior parte degli altri ecosistemi a livello globale.

All’interno di un Distretto di Innovazione, importanti agenti specializzati nell’abilitare relazioni sia forti che deboli sono gli Incubatori/Acceleratori di Impresa, che agendo in questo modo e operando all’interno del Distretto sono in grado di mettere le nuove iniziative imprenditoriali nelle migliori condizioni per sviluppare il proprio business.

3. Companies

Le aziende oggi, per competere, sono impegnate a trovare vie e strategie sempre più efficaci per produrre innovazione. L’Open Innovation è una delle risposte a questa esigenza, ma per essere efficace, richiede l’instaurazione e la gestione di un gran numero di relazioni e l’accesso a molte risorse critiche quali conoscenze, talenti, risultati di sperimentazioni, brevetti, ecc… Se ci riflettiamo, ci accorgiamo che si tratta proprio delle risorse e relazioni presenti in un Distretto di Innovazione. Di conseguenza oggi diventa fondamentale per le aziende che vogliano realmente attivare delle iniziative di Open Innovation unire delle proprie unità di R&S all’interno di Distretti di Innovazione, fino ad attivare dei veri e propri Corporate Accelerator specializzati nello sperimentare concretamente le innovazioni valorizzando le sinergie con le risorse dei Distretti e senza correre il rischio di condizionare le nuove iniziative (spin-out) con l’influenza delle attività focalizzate sul core business aziendale.

Sempre nel pilastro “Companies” sono comprese anche le startup che, dopo periodo di incubazione, sono cresciute e sono entrate nella fase di scale-up e/o divenute delle vere e proprie aziende. Queste organizzazioni hanno appreso, fin dalla nascita, come operare all’interno dell’ecosistema del Distretto, ad esempio per continuare le collaborazioni con l’accademia per i progetti di ricerca applicata, per l’accesso a finanziamenti, per la realizzazioni prototipali nei laboratori di ricerca e per il reclutamento di talenti. Per queste aziende risulta quindi del tutto naturale stabilire la propria sede all’interno dell’area del Distretto di Innovazione.

4. Finance

Arriviamo all’ultima, ma fondamentale componente dei Distretti: gli asset finanziari, ovvero il carburante che permette a questa macchina di correre veloce, composti da attori chiave quali ad esempio, fondi d’investimento (venture capital e private equity), le banche, i fondi di corporate ventureed i fondi istituzionali pubblici. La disponibilità di risorse finanziarie e di manager capaci di gestire i capitali di rischio è senza dubbio un importante fattore di successo di un Distretto di Innovazione. Questi attori, in genere, si specializzano per riuscire a finanziare l’intera filiera che si occupa di innovazione, a partire da risorse di pre-seed per permettere la realizzazione di proof-of-concept, per seguire con fondi di venture capital, e fondi per gestire le fasi successive di early-stage e late-stage. In questo scenario, gli attori di Corporate Venture svolgono un ruolo ibrido, costituendo da un lato la naturale exit per le migliori iniziative, dall’altro per orientare le attività su quelle iniziative ritenute più promettenti dal mondo dell’industria.

Come costruire i distretti dell’innovazione in Italia

È possibile ricondurre queste osservazioni tratte da esperienze internazionali anche alla realtà italiana?

Calando tutto questo nel contesto Italiano, troviamo molti di questi asset già parzialmente organizzati. L’Italia può vantare infatti delle peculiarità culturali uniche in termini di creatività, imprenditorialità diffusa, talenti e tessuto industriale di PMI in grado di accelerare sin da subito l’ingegnerizzazione di prodotti innovativi grazie all’enorme flessibilità della filiera produttiva.

L’ecosistema innovativo in Italia sta effettivamente crescendo: stanno aumentando gli operatori capaci di finanziare con capitali di rischio le iniziative innovative, sta crescendo il numero e la qualità delle startup, le imprese sono maggiormente interessate ad avviare iniziative di Open Innovation e stanno sviluppandosi delle aree di concentrazione di attori rivolti a sostenere l’innovazione. Questa capacità di partire in piccolo, ma pensare in grande e scalare rapidamente a livello globale, dovrebbe essere favorita dalle istituzioni locali e nazionali. Alla luce dell’analisi dei casi internazionali e delle considerazioni sopra espresse, riteniamo sia ora il momento di scelte lungimiranti e coraggiose per i policy maker. Scelte che traducano vision ambiziose in atti concreti capaci di aumentare significativamente gli attuali livelli di investimento e di favorire la concentrazione delle risorse per garantire la giusta massa critica.

[2] Per ulteriori approfondimenti sul ruolo dei policy maker nello sviluppo della Silicon Valley v. “The Entrepreneurial State: Debunking Public vs. Private Sector Myths” — by Mariana Mazzuccato.

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Stefano Mainetti, CEO Polihub
Stefano Mainetti, CEO Polihub

È Chief Executive Officer del PoliHub, il business incubator del Politecnico di Milano. Docente del MIP-Politecnico di Milano nell'area "Management of Information System", è anche direttore dell'area “Innovazione Digitale” del Fondazione Politecnico di Milano.

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