Non sempre le startup sono imprese ma “pezzi” del sistema economico

Umberto Bertelè, autore del libro “Strategia”, analizza i percorsi dell’innovazione che non sempre hanno sin dall’inizio una chiara linea di sviluppo. Android senza Google non sarebbe andata lontana, così come Siri senza Apple

Pubblicato il 24 Mar 2014

Umberto Bertelè

Una parola di origini militari abusata ma fondamentale nella nascita e nello sviluppo di un’impresa. “Strategia”, si intitola semplicemente così il nuovo libro di Umberto Bertelè (pubblicato da Egea nella collana Pixel), che in in poco più di 150 pagine raccoglie la sua esperienza accademica (è docente di Strategia e Sistemi di pianificazione al Politecnico di Milano) e sul campo (ha partecipato e siede nei consigli di amministrazione di importanti società. La teoria e la pratica, quindi, con numerosi casi aziendali (da Apple a Luxottica) e soprattutto con numerosi spunti di riflessione sulla trasformazione in atto nei mercati e, di conseguenza, nella gestione aziendale, anche per effetto delle tecnologie digitali.
Il libro sarà presentato il 2 aprile a Napoli, l’11 alla Friday Cisco University di Monza e successivamente a Bari, Bergamo e Bologna.

Nel volume il professor Bertelè si interroga sul ruolo che la strategia può e deve avere in una startup, che di solito non ha un orizzonte temporale di azione particilarmente lungo. E si domanda: senza una strategia una startup può diventare una vera impresa? In questo intervento per EconomyUp approfondisce fornisce alcune risposte.

Vendere o lavorare per crescere? Qual è la strategia perfetta per una startup? La cessione al migliore offerente per una cifra (possibilmente) a diversi zeri o il collocamento in Borsa nella speranza di una crescita continua di dimensioni e di mercato? Non è possibile dare una risposta univoca. Perché si possono presentare opportunità diverse a seconda di quello che la startup fa. Perché il mercato finanziario tende a comportarsi in modo ondivago e a variare nel tempo le sue preferenze e attribuzioni di valore. Perché spesso una startup definisce la sua strategia strada facendo, sulla base del successo o meno delle iniziative e dell’entità e delle condizioni delle offerte che eventualmente le giungono. Senza che questo rappresenti a priori un ostacolo alla creazione di una vera e robusta impresa.

Avrete sicuramente notato – nel corso degli ultimi anni – come sia più frequente la quotazione in Borsa delle startup rivolte al settore “consumer” e l’acquisizione da parte di grandi imprese di quelle rivolte al “corporate”: anche se con controesempi importanti, come quello di WhatsApp acquisita da Facebook per 19 miliardi di dollari o di Salesforce.com (antesignana del software as a service erogato alle imprese via cloud), che ha visto la sua capitalizzazione salire del 600 per cento in cinque anni e raggiungere i 36 miliardi. Avrete notato anche come nell’ambito biotecnologico-farmaceutico siano pochissime le start-up che si quotano e sia diventato invece un fenomeno strettamente complementare alla logica di “open innovation” di diverse grandi imprese quello di vendersi al miglior offerente.

E’ possibile dire che in questi casi non si crea una vera impresa? In realtà il fenomeno è molto sfumato. Ci sono casi, ad esempio quello di Android acquisita da Google, in cui senza acquisizione la start-up non sarebbe presumibilmente andata molto lontana: perché il finanziamento della crescita di Android è stato reso possibile non tanto dalla vendita del sistema operativo (ceduto gratuitamente), quanto dai ricavi e profitti derivanti a Google dall’essere presente nell’home page di un numero elevatissimo di smartphone e tablet. Anche la gestione di Android è stata per molti anni autonoma, sotto la direzione del fondatore passato alle dipendenze di Google, sino a quando la crescente sovrapposizione/competizione con Chrome – altra divisione di Google – ha spinto a una loro unificazione.

Ci sono casi come quello di Siri, diventato – con l’acquisizione della start-up da parte di Apple – un punto di forza dell’iPhone. Erano possibili strategie alternative, tipicamente di mantenimento dell’autonomia e di vendita del sistema a chi lo richiedesse sul mercato? Forse sì, anche se in casi come questo possono esserci difficoltà nella quotazione a fronte del numero estremamente ristretto dei potenziali clienti.

Ci sono casi, nel farmaceutico-biotecnologico, ove l’idea di crearsi una rete di commercializzazione su scala mondiale propria può essere del tutto velleitaria e dove – dati i tempi e i costi di approvazione dei brevetti – si devono trovare fondi di venture capital pazienti o si deve accettare il fatto di passare da un fondo a un altro, ogni tot anni, in funzione della specializzazione e del desiderio di exit di ciascuno di essi. E ove quindi la vendita è molto più frequente della quotazione.

Sarebbe probabilmente opportuno allargare il significato che spesso implicitamente diamo al termine “start-up”, pensando a esse non solo come future imprese autonome, ma anche come futuri “pezzi” del sistema economico-produttivo: con una forte similitudine con le avventure innovative che vengono lanciate all’interno delle imprese e che talora diventano grossi successi.

*Umberto Bertelè è docente di Strategia e Sistemi di pianificazione al Politecnico di Milano

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