Settimana scorsa ho posto il problema dell’uso che Trump stava facendo del premier inglese Theresa May per promuovere la propria spinta reazionaria verso il ritorno al modello ottocentesco di stato nazione. La May, ovviamente, gradisce, poiché sa bene che al proprio interno ha contro il 48% degli aventi diritto al voto, così che il sostegno del grande fratello non può che portare rassicurarla. Peccato per lei, e per quelli come lei ovunque risiedano, e fortuna per tutti gli altri, che la Corte Suprema abbia ristabilito la certezza del diritto, sentenziando che non può essere un governo a disfare quello che il parlamento ha fatto.
Oggi voglio fare una cosa tra l’ambizioso e l’odioso: voglio valutare gli accadimenti di questa ultima settimana a Washington, DC. Perché ambiziosa? Perché tanto le grandi firme del giornalismo mondiale che gran parte degli analisti finanziari sembrano molto cauti ad esprimere valutazioni su ciò che ci si può aspettare dalla nuova amministrazione, tanto sul piano finanziario che su quello economico. E odiosa, perché sa tanto di ‘adesso velo dico io come stanno le cose.’ Appunto. L’obiettivo, come sempre, è costruire uno scenario plausibile, di fronte al quale poi ciascuno farà quel che crede.
A me sembra che il grande dubbio cresciuto nella testa di molti durante la campagna elettorale fosse questo: ma Trump ci crede davvero, o sta facendo campagna elettorale? In altre parole: sta ‘semplicemente’ facendo appello agli istinti più bassi che tanti vorrebbero veder soddisfatti, ma poi se eletto troverà una versione ‘civile’ di quelle promesse? O, se eletto, si atterrà alla lettera a quelle promesse? Siccome gran parte delle persone pensanti riteneva che mai sarebbe stato eletto sulla quella piattaforma elettorale, non ci pensammo più. E quali erano i temi qualificanti di quella campagna elettorale? Io ne vedo quattro importanti e non generici: 1. Il muro contro il Messico e l’inasprimento del controllo dell’immigrazione; 2. Il ripudio della politica commerciale seguita negli ultimi sessant’anni dalle amministrazioni precedenti; 3. Lo smantellamento delle misure contenute nell’Affordable Care Act, note come ‘Obamacare’; 4. L’abolizione di normativa stringente su temi di natura ambientale e in particolare sulla generazione di biossido di carbonio.
1. Il muro contro il Messico. La notizia è di mercoledi 25 mattina, preannunciata con un tweet delle 3:37 e poi ripresa dal New York Times come ‘Alert’. Certo, non è ancora la realizzazione del muro, ma il passo avanti in quella direzione è enorme per il fatto stesso di non aver lasciato ‘cadere’ l’attenzione sul tema ma aver invece agito immediatamente. Sembra che il Messico non la stia prendendo bene, e qualcuno sta mettendo in dubbio la visita del presidente messicano prevista per la fine del mese.
2. L’uscita dal TPP. Gli studiosi di economia internazionale hanno discusso per decenni se un accordo di libero scambio regionale, com’è appunto il TPP, sia un fatto positivo o negativo, cioè se il beneficio che esso porta ai Paesi aderenti all’accordo non sia più che neutralizzato dai danni che esso provoca al resto del mondo, che dell’accordo non fa ovviamente parte. Questione risolta, niente TPP. O almeno niente TPP con gli Usa, il che apre un quesito di non poco conto: adesso sta a Giappone e Cina giocarsi la leadership nella evoluzione dei rapporti commerciali in Oriente. Dove i tassi di crescita dell’economia sono i più alti al mondo, e a cui tutti guardiamo nella speranza che siano in grado di darci quella scossa di domanda di beni e servizi necessaria per avviare l’uscita dalla stagnazione secolare.
3. Obamacare. Sulla abolizione delle parti più significative dell’Affordable Care Act avevamo pochi dubbi, e infatti già nel primo giorno la nuova presidenza ha cominciato a smantellarla. Previsione facile, questa, perché sulla fine dell’Obamacare il presidente trova l’accordo quasi incondizionato della maggioranza repubblicana in Congresso, accordo non sempre altrettanto forte sulle altre misure qualificanti della nuova amministrazione.
4. Normativa ambientale. Nell’incontro con i vertici dell’industria automobilistica è stata fatta grande chiarezza: l’auto va prodotta interamente negli Usa; in cambio avrete l’eliminazione di normativa a protezione dell’ambiente. Infatti “io sono un ambientalista, ma la regolamentazione è ormai fuori controllo”.
Per completare il quadro basta ora tener presente quel che ho scritto settimana scorsa sul rapporto con May e con la proposizione (auspicio) secondo cui bene fa May a cercare l’uscita dall’UE, che comunque continuerà a perdere altri membri e finirà dissanguata. Ecco allora che emerge da questi cinque punti di policy un quadro coerente nelle sue componenti e univoco nella sua tonalità. Riassumerei in tre punti:
1. Riaffermazione del principio della sovranità nazionale su tutti gli aspetti economici rilevanti, con implicito rigetto dei principi del libero scambio internazionale e dei vantaggi che ne derivano;
2. Scelta dunque del protezionismo quale strumento per realizzare, rapidamente, le barriere che dovrebbero garantire l’isolamento dalle forze esterne ritenute colpevoli di aver indebolito il paese mediante comportamenti ‘unfair’ (s i noti il parallelo con la posizione di May secondo cui, liberato dalle catene imposte dall’Unione Europea, il Regno Unito tornerà ad essere prospero e punto di riferimento nel mondo);
3. Ritorno alla responsabilità dei produttori e delle imprese nel difendere l’interesse supremo della nazione, responsabilità in cambio della quale otterranno la rimozione di normative ambientali e alleggerimento fiscale.
In breve, esattamente quel che aveva promesso su questi temi. Il che mi preoccupa. Molto..