Sono ormai più di 12 mesi che vige questa innovazione esclusivamente italiana del registro speciale, istituito presso le Camere di Commercio, riservato alle cosiddette “startup innovative”, e mi sento abbastanza certo che nei prossimi giorni, non appena si toccherà la soglia delle duemila neoimprese ascrivibili a tale categoria, udiremo squilli di tromba a destra e manca sul successo dell’iniziativa.
Andando come mio solito controcorrente, mi domando invece quanto dovremo ancora aspettare perché qualcuno vada a fare una seria valutazione di merito, anziché fermarsi ai numeri: il sospetto che quel database sia quantomeno “inquinato” da soggetti che con le startup hanno poco a che fare è alto, ed è accompagnato dalla certezza che molte startup italiane non vi siano invece incluse. Vediamo perché.
Nel mondo, la definizione più comunemente accettata di startup è quella coniata dall’investitore Steve Blank, riportata perfino da Wikipedia in lingua madre: “Un’organizzazione temporanea in cerca di un business model ripetibile e scalabile“. Si tratta cioè di imprese architettate per poter crescere dimensionalmente in modo molto veloce, replicando il proprio modello di business in modo men che proporzionale rispetto agli investimenti. L’interesse intorno a questo particolare tipo di imprese è dato dal fatto che sono in grado, in poco tempo, di creare molti posti di lavoro e di contribuire positivamente al Pil della regione in cui nascono o si insediano. Identifcarle e favorirle, quindi, per la politica significa aver investito sul futuro del proprio territorio.
Ora, visto che non è possibile inquadrarle con delle caratteristiche o prerequisiti di base, nè dall’ambito o dal mercato in cui operano, perfino nella burocratissima Unione Europea si concorda che il solo modo per identificare una “vera” startup è di lasciar fare al mercato: se esperti o investitori professionisti la reputano promettente, allora è una startup.
In Italia non avremmo dovuto far altro che mutuare questa logica dal resto del mondo, creando un albo degli investitori qualificati – magari gestito dalla Consob – e determinare una serie di misure procompetitive e snellenti a vantaggio di quelle imprese che ricevessero investimenti da parte di questi soggetti, o riconoscimenti e premi da parte di concorsi organizzati da esperti. Il vantaggio nell’avere un albo degli investitori, anziché delle startup, è indubbio: le caratteristiche per identificare un investitore sono poche ed oggettive, ed averne un elenco permetterebbe di condividere con questi le pratiche internazionali, a garanzia e tutela sia delle startup che degli investitori. Non solo: un albo degli investitori permetterebbe anche di ricercarli agevolmente ai fini di iniziative di equity crowdfunding, dove è richiesta questa figura, di mapparli per tipologia – angels, fondi seed, vc, investment companies… – nonché di conoscere con certezza l’elenco dei soggetti attraverso cui poter investire godendo dei benefici fiscali che si stanno introducendo.
Invece di fare così, sostanzialmente “copiando” sistemi più maturi del nostro, abbiamo fatto i creativi, e ci siamo inventati i requisiti di legge per entrare nel registro speciale. Infilandosi per quel percorso, chi ha scritto la normativa è stato costretto ad identificare dei requisiti che potessero perimetrare le startup, nella pratica rendendo più larghe delle maglie che erano state pensate per gli spin-off da ricerca universitaria. Ed è a questo punto che è stata fatta la frittata, per una serie di motivi: innanzitutto, dentro quel perimetro ci si infila abbastanza agevolmente anche se si è una qualsiasi web agency, società di consulenza ict, o ecommerce; aziende tutt’altro che orientate alla scalabilità e, sebbene operanti nel digitale, tutto sommato molto tradizionali. Secondo, i requisiti per l’accesso vengono applicati in modo molto differente tra una Camera di Commercio e l’altra… è quindi quasi impossibile entrare nel registro a Cagliari, un po’ ostico a Roma, ma si sente anche “prego c’è posto, avanti un altro” altrove. Infine, i vantaggi offerti non sono poi questa gran cosa, bisogna comunque gestire burocrazia, tasse ce ne sono, e va a finire che molte “vere” startup decidono di restare fuori dall’albo se non addirittura di costituirsi all’estero pur operando dall’Italia. Esistono alcuni investitori italianissimi che, se non lo sapeste, impongono di assumere la forma della Ltd con sede nel Regno Unito.
Le conclusioni semplicistiche di tutto questo ragionamento sono evidenti: ad oggi non abbiamo la minima idea di quante siano le startup italiane, e continuare ad osservare il numero delle società iscritte nel registro speciale delle Camere di Commercio non ci è di alcun aiuto nel comprendere la dimensione del fenomeno, né su scala nazionale né su base territoriale o di industry.
Un ragionamento più articolato potrebbe portarci verso i maggiori incentivi da dare al settore, quali dinamiche modificare, in quali momenti e tempi del lancio e della crescita di imprese ad alto potenziale sia giusto dare delle condizioni “speciali”, ma tutto questo è impossibile se prima non abbiamo modo di misurare davvero il numero dei soggetti che vale la pena beneficiare perché, con queste leggi, alleviamo davvero delle “future multinazionali” e non dei piccoli studi professionali… Intanto, per favore, iniziamo con l’ammettere che abbiamo impostato un’architettura sbagliata, è ancora abbastanza presto per correggere tutto senza conseguenze serie, e identificare il possibile sbaglio sarebbe un ottimo inizio.
* Gianmarco Carnovale è presidente di Roma Startup