I miei amici e colleghi sanno che non mi va giù che, se stiamo parlando una lingua, qualcuno infili nel discorso una parola in un’altra lingua. Anche nel caso in cui io quell’altra lingua la conosca. Ma tant’è, la accetto questa parola, la accetto perché mi si informa che esiste un dibattito sul mismatching nel mercato del lavoro italiano e cioè, per chi conosce l’italiano, una non corrispondenza tra la composizione dell’offerta di lavoro e quella della domanda. A titoli esemplificativo farò riferimento alla affermazione di qualcuno che non molto tempo fa ha sostenuto che ci sono troppi ingegneri in Italia. La tesi che sosterrò è questa: che la parola mismatching non può essere usata da chi intenda contribuire al dibattito in buona fede, poiché essa non può fare altro che dire quel che dice, mentre il nostro interesse sta altrove: nella spiegazione di questa non corrispondenza. Ed essendo io interessato alle spiegazioni, ecco la mia tesi: certo che c’è non corrispondenza. Ed è dovuta alla incapacità (o mancanza di volontà, non so) delle imprese italiane di innovare. O, se dovesse piacere di più: la disoccupazione che osserviamo non è di natura frizionale e dunque transeunte, cosa questa assolutamente normale in una economia che si rinnova e cresce (anche se poco), bensì l’effetto di domanda inadeguata di personale qualificato da parte delle imprese.
Occorre riflettere su questo tema, perché esso è uno dei punti di snodo cruciali per il futuro del Paese. Oggi lo farò ponendo il quesito nel suo ambito naturale: quello dell’equilibrio tra domanda e offerta di lavoro. Per dimostrare che cosa? Che è la domanda di lavoro da parte delle imprese italiane ad essere carente, e non la presunta stupidità di chi sceglie un percorso di studio ‘sbagliato’.
Prendo le mosse da una proposizione che non dovrebbe suscitare troppo scandalo (se non tra i fondamentalisti fautori del cosiddetto ‘libero mercato’): la nostra è un’economia di mercato. Ma certo che lo so, ci sono le scuole pubbliche, accanto a quelle private, e questo distorce il ‘libero’ funzionamento del mercato –come ovunque; come ci sono i sussidi all’istruzione privata, che distorcono il libero funzionamento del mercato –come ovunque. Insomma, nessuno è perfetto, nessuno è ‘libero’. Cominciamo dall’offerta di lavoro: contrariamente a quel che pensa chi cura la pagina della pubblicità di grandi quotidiani nazionali noi, le persone, offriamo lavoro; le imprese lo chiedono. E prima di presentarci sul mercato del lavoro prendiamo decisioni importanti circa il ‘titolo di studio’ che vogliamo ottenere in preparazione di quel momento. Come decidono, gli individui, quale livello di istruzione perseguire, e quale tipo di istruzione (umanistica o scientifica)? La risposta è: boh. Ci sono mille motivazioni e milioni di modi di combinarle, quelle motivazioni. Ci sono coloro che, per condizioni economiche di partenza, non si pongono proprio il problema di una formazione universitaria, umanistica o scientifica che sia; ci sono coloro che sono felici di ereditare lo studio del babbo, e allora studiano giurisprudenza senza preoccuparsi dello stato di quel segmento del mercato del lavoro; ci sono quelli che hanno la possibilità di far quel che piace loro, e non tengono in alcuna considerazione variabili che a molti sembrerebbe ‘naturale’ prendere in considerazione; e via differenziando.
Supponiamo di volerci occupare soltanto di coloro per i quali la scelta di un indirizzo (e livello) di studi è seriamente influenzata dalla probabilità di trovare poi domanda di lavoro che li possa soddisfare. Probabilità soggettiva, inutile dirlo, ed ex ante, cioè stimata anni prima del fatidico ‘ingresso sul mercato del lavoro’. Ciascuno si formerà un quadro delle probabilità di trovar lavoro nel campo, professione, mestiere per cui studia e, data la possibilità di scegliere, sceglierà quel segmento di domanda di lavoro che ritiene a probabilità elevata di soddisfazione. Ma qui sorge il quesito: qual è la probabilità che il giovane aspirante lavoratore abbia un’idea di quale diavolo sia la probabilità di trovare un lavoro come, non so, qualcosa? Vale a dire: se l’offerta di lavoro non è indipendente dalla domanda, cioè dalla conoscenza del tipo di lavori offerti dalle imprese nazionali, dove trova, il nostro giovane, informazioni attendibili sulla domanda di lavoro?
Per fortuna che c’è il Governo e, in particolare, il suo braccio statistico, l’Istat, che pubblica una messe di dati con regolarità e, per quel che ne sappiamo, con accuratezza. E colpisce allora la recentissima pubblicazione Cittadini, imprese e ICT, La quale raccoglie e divulga una massa di dati di estremo interesse tra i quali, per me oggi, vale la pena discutere quelli relativi alle imprese.
Ci dice il Rapporto Istat che le PMI italiane che nel 2015 hanno venduto online almeno l’1% del proprio fatturato sono il 7% del totale. In una distribuzione che va dal valore massimo del 32% di quelle irlandesi, con una media del 16% di tutte quelle localizzate in Unione Europea a 28 membri, al minimo del 6% delle imprese bulgare e greche. Drammatico. Convegni, programmi, fanfara sull’industria 4.0 e via cianciando, quando le imprese nazionali sono messe così. Lo sapevate? Io lo immaginavo, ma non avevo i numeri, e mai mi sarei immaginato che le imprese italiane fossero a questo livello di sottosviluppo.
Ora torniamo all’offerta di lavoro, e prendiamo un giovane che qualche anno fa abbia concluso brillantemente il proprio ciclo di istruzione secondaria e abbia deciso di fare che so, l’ingegnere informatico. Qualcuno, in malafede, ha scritto che troppi giovani vogliono fare gli ingegneri. Infatti, dice lo stesso qualcuno, ci sono troppo ingegneri. Oh, really!? E come poteva quel disgraziato, e con lui la sua famiglia, immaginare che le imprese italiane fossero ridotte così? Come poteva, con tutti i mezzi di comunicazione di massa impegnati a raccontare balle su internet, digitalizzazione, la fine della carta, un computer per ogni bambino (e bambina, presumo), e via di questo passo!?
Perché si vuol nascondere il fatto che se i nostri giovani ingegneri, fisici, biologi, scaricano camion all’ortofrutta o emigrano, la responsabilità è delle imprese? That are falling dramatically behind.