Uno dei trend più chiari nell’economia è la crescita della quota di Lavoro Digitale ovvero della quota di lavoratori le cui attività giornaliere saranno totalmente o prevalentemente svolte in cloud.
Alcune professioni infatti possono essere svolte già oggi totalmente da remoto (si veda studio di Tito Boeri pubblicato su Lavoce.info che stima intorno al 40% la quota di lavori remotizzabili in Italia. Questa percentuale può crescere fino all’80% in Paesi come Israele) e in generale per ogni lavoratore aumenterà sensibilmente la percentuale di attività che non richiederà presenza fisica presso la sede del datore di lavoro o presso il cliente.
Dal lavoro tradizionale al lavoro digitale
Questo succede per due ordini di ragioni :
1) alcuni lavori verranno svolti più agevolmente da macchine
2) l’oggetto del lavoro non sarà la produzione di un bene fisico ma un bene immateriale o un servizio la cui “produzione” non richiederà o richiederà in minima parte di essere collocato in qualche punto dello spazio.
Questa considerazione comporta non pochi cambiamenti nel modo in cui il lavoro sarà regolato e organizzato.
Il dibattito pubblico si concentra oggi, in Europa e in Italia, giustamente su alcuni lavori come quelli dei driver e dei rider, che svolgono una parte preponderante del loro lavoro in modo assolutamente tradizionale e “non digitale”, ma sembra trascurare invece quella parte del lavoro che sta all’origine del business con cui queste piattaforme di lavoro tradizionale vengono costruite e gestite.
Questa miopia del dibattito rischia di essere molto pericolosa perché invece di pensare troppo agli impatti del lavoro digitale sul lavoro tradizionale andrebbe capito come regolare, favorire e attrarre le forme di lavoro digitale in modo da essere nella condizione di progettare gli impatti sul lavoro tradizionale senza subirli.
Se infatti in generale l’impatto della tecnologia sul lavoro tradizionale comporta molto spesso una sua erosione e sostituzione (probabilmente l’attività di un rider potrà essere svolta da un drone o come quella di un driver potrà essere svolta da macchine a guida autonoma), il lavoro digitale di per sé rappresenta una frontiera del lavoro in cui possono essere sviluppati quasi illimitatamente servizi e prodotti immateriali con dinamiche di offerta, competizione e utilizzo abbastanza differenti.
Che cos’è lavoro digitale e che cosa non lo è
Il primo punto è quindi fare chiarezza su cosa è lavoro digitale e cosa non lo è. Fatta questa considerazione si può iniziare a ragionare e discutere sulla natura del lavoro digitale e sugli impatti di questo lavoro.
Si tratta di un lavoro la cui domanda cresce costantemente, che fornisce possibilità di flessibilità non precedenti e richiede servizi e strumenti di lavoro diversi (si pensi alla possibilità di lavorare quando lo si desidera e per più committenti o la necessità di socialità, servizi on demand etc. ) , con una rilevante necessità di competenze qualificate, che interagiscono fra loro in team di profili multidisciplinari, il cui aggiornamento richiede formazione costante sia dal punto di vista “teorico” che pratico.
In sintesi è un lavoro pulito, di qualità, con rischi trascurabili rispetto al lavoro industriale, che cambia radicalmente gli stessi stili di vita e di consumo di chi lo svolge. Si tratta di una filiera e una prospettiva di sviluppo molto rilevante.
Le condizioni per lo sviluppo del Lavoro Digitale
Stabilita quindi la natura di questo lavoro e la sua “desiderabilità sociale” va quindi immaginato come costruire le condizioni perché si sviluppi in modo corretto.
Come infatti l’industria manifatturiera richiede materie prime, competenze e un frame regolatorio particolari per attrarre attività ed evitare l’offshoring (si pensi alla possibilità di spostare il lavoro digitale ovunque senza costi), così il lavoro digitale richiede una regolazione, servizi e competenze precisi.
Anche su questo punto mi pare che il dibattito non colga del tutto nel segno. Se infatti la connettività, la banda larga e la finanza sono la base per costruire questa nuova industria, i fattori strategici di sviluppo sono le infrastrutture immateriali e la regolazione dei rapporti di lavoro.
La mia idea è che serva quindi una regolazione specifica che non confonda lavoro tradizionale e lavoro digitale (es. un contratto nazionale di lavoro dedicato). Un frame regolatorio che renda molto semplice lavorare per più committenti, senza una sede fissa di lavoro, con frequenti cambiamenti nel proprio posizionamento professionale e nel modo in cui si viene remunerati. Penso al lavoro dall’estero, alle regole del distacco, alla flessibilità di chiudere e aprire rapporti di lavoro con soggetti diversi, al rapporto fra lavoro subordinato e lavoro autonomo, al lavoro digitale nella Pubblica Amministrazione.
Secondariamente serve un ecosistema di servizi di assistenza, formazione, benessere, assicurazione che rendano tutto quello che ruota attorno al lavoro, molto semplice e gestibile.
In terzo luogo, al pari di quanto fatto per l’attrazione degli investimenti e per la transizione ecologica, va discussa immediatamente la possibilità di un regime fiscale agevolato (visti i vantaggi in termini di costi ambientali e il minor utilizzo di infrastrutture pubbliche). Come infatti riteniamo corretto incentivare il passaggio dall’industria del carbone o delle fonti fossili a quella delle fonti rinnovabili, allo stesso modo serve incentivare il passaggio da forme di lavoro spesso sporche, pericolose, inique (si pensi alla partecipazione di giovani e donne) e poco interessanti a questa nuova forma di lavoro pulita, creativa, culturale e libera.
Credo anzi che questo passaggio sia fondamentale e complementare se non addirittura preliminare rispetto ai progetti di cambiamento energetico: il filosofo Luciano Floridi associa giustamente il verde è il blu e nel PNRR i due pilastri principali sono la transizione ecologica e quella digitale
Aggiornare la normativa sulla proprietà intellettuale
Oltre a questi punti principali va probabilmente aggiornata la normativa sulla proprietà intellettuale, in quanto il know how creativo e culturale alla base del lavoro digitale va protetto e tutelato in modo specifico, e garantita una definizione “non burocratica” delle competenze necessarie. Così come si pone attenzione a come viene prodotto un vaccino allo stesso modo va posta attenzione alle competenze e know how con cui si costruisce una piattaforma.
Infine vanno ripensate le forme di open Innovation e di finanza, adattandole ad un contesto competitivo digitale in cui la sperimentazione, l’aggregazione di progettualità complementari e lo sviluppo di soluzioni utili sia più importante di quello che serve immediatamente al mercato in modo frammentato. Questo è di per sè un punto delicato quando si fa innovazione ma indispensabile quando si parla di un settore di questa portata se non si vuole restare sempre un passo indietro.
La corsa al Lavoro Digitale è iniziata da qualche anno e forse è ancora possibile partecipare a costruirne il futuro a condizione di avere le idee chiare e non perdere altro tempo.