Avanti con questa storia della cosiddetta sharing economy, una storia che da puro divertissement sta diventando un impegno (semi) serio. Chi ama ricostruire la genesi e lo sviluppo dei miei pensierini, trova i miei pezzi precedenti sul tema su questo blog. Ma prometto che questo è probabilmente l’ultimo pezzo in cui me la prendo con l’ideologia del cosiddetto ‘sharing’, e che dal prossimo pezzo passerò a parlare dei fatti ad esso collegati: progresso tecnico, forme di occupazione (e di disoccupazione), redditi prodotti e redditi stimati.
È cominciato male, questo 2017. Nella prima settimana dell’anno passo in libreria per raccattare un poco di idee, vedere se le cose di cui si sta parlando mi interessano, fotografare le copertine di libri e poi eventualmente comperarli in versione elettronica. Mi imbatto in un libro di un certo Corrado Staglianò, nome che avevo sentito pronunciare con un certo rispetto ad un seminario cui ero andato appena due settimane prima. Mi fermo, presto attenzione, il titolo: Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro. Einaudi, Torino 2016. Apro, consulto l’indice, il lavoro sembra interessante; e poi c’è un capitolo 9, La uberizzazione della società, dedicato alla sharing economy. Sconvolgo la procedura del fotografa-controlla-acquista, e passo subito ad acquistare il libro in versione catacea.
Ed ecco in che senso l’anno comincia male: i bei pensierini che sono venuto elaborando e pubblicando in questo blog dal novembre 2015, Staglianò li pubblica già in un libro. Pensavo di essere l’unico intelligente, il solo capace di pensare controcorrente, il solo o quasi ad aver visto la truffa ideologica di chi chiama ‘sharing’ il fare gli affari, e invece no. E l’umiliazione è tanto più grande nel sapere che Staglianò è un giornalista, e io non leggo giornali italiani dal 2004, per cui non so se Staglianò sia venuto scrivendo di questi temi sulle testate per cui scrive e solo in seguito abbia raccolto i diversi pezzi in un libro. Lezione antica: chi non legge pensa con grande fatica.
Il libro di cui stiamo parlando ho finito per leggermelo tutto. Si tratta di un libro molto buono che, come mostra il titolo, non si occupa solo di sharing ma di disoccupazione tecnologica in generale. Prima facie, un tema non proprio nuovissimo: Marx e il movimento luddista se ne occupavano due secoli fa, ponendosi la stessa domanda: ma l’adozione delle macchine nel processo produttivo genera o no occupazione netta? Quesito legittimo oggi più che mai, però, quando non parliamo più solo di ‘macchine’ che incorporano livelli crescenti di tecnologia, id est i robots, ma di macchine la cui tipologia più importante l’autore identifica, nel capitolo 9, con ‘gli algoritmi’ o ‘piattaforme’. Mi spiego semplificando al limite del ridicolo. Introdurre un robot in un reparto produttivo a parità di domanda dell’output di quel reparto genera nececessariamente disoccupazione tra gli addetti alla produzione: chiamala disoccupazione operaia. Questo tipo di disoccupazione andava bene, o quanto meno era ignorata, da tutti tranne che dagli operai e, ovviamente, dal loro sindacato, e ciò per via del mantra secondo cui siamo tutti ‘classe media’. Ma di che tipo di disoccupazione tecnologica si può parlare, cioè chi saranno i disoccupati quando la tecnologia nuova non assume soltanto la forma di un robot in produzione, ma anche, e crescentemente, quella di un algoritmo e/o di una piattaforma? Mi occuperò di questo tema generale più estesamente in seguito. Per ora resto sulla sharing economy che, ricordiamolo, non condivide niente o quasi.
Molte le scelte di Staglianò che condivido e che voglio sottolineare. Anzitutto, l’impostazione di fondo: la valenza ideologica di cui si è voluto caricare il fenomeno noto come ‘sharing’. Ma che sharing non è. In che senso ci sarebbe condivisione tra l’azienda Uber e gli autisti-cum-auto che offrono il sevizio? Certo, si sottolinea, questi autisti-cum-auto vengono chiamati driving partners dalla ditta Uber, ma sono partners? No. Punto. Andate a guardarvi il dizionario (questa è un’altra cosa che apprezzo del lavoro di CS, legge i dizionari). Chiamarli partner è ciò che serve per trasformare agli occhi del grande pubblico un rapporto economico in un rapporto amorevole, un tassello importante nella strategia che vuol far apparire come condivisione un rapporto di produzione. Si, ha ragione l’autore, comincia dalle parole la truffa (definizione mia, non di RS) per presentare queste tipo di attività economiche come il superamento dei rapporti economici e l’inizio dello scivolare verso l’economia del dono e della solidarietà. Non il sol dell’avvenire, per carità, chè sa troppo di comunismo, ma solidarietà, cooperazione, collaborazione, condivisione….
Imparo poi, leggendo Staglianò, che alcune di queste ditte assoldano delle persone nel ruolo di community manager, o community advisor, o community something. Community?! La parola ‘comunità’ ha un significato enorme nella cultura di questo paese come di tutti gli altri, come si fa a lasciarla usare impunemente per caratterizzare persone che entrano in rapporti economici tra loro e con delle ditte senza la minima condivisione di valori, aspirazioni, sentimenti? Ho già scritto un poco di questo, e non posso che plaudire all’approccio di Staglianò per aver sottolineato con forza l’indecenza di questa operazione. Indecenza cui si prestano volentieri organizzazioni ‘alternative’, onlus, e via donando.
Basta, altrimenti mi annoio e annoio: quello che i buonisti a tutti i costi strombazzano come ‘condivisione’ tale non è quasi mai. Si tratta di un rapporto di produzione in cui esistono gli azionisti e i quadri, i lavoratori e i consumatori, chi guadagna e chi perde. Che questa attività abbia delle funzioni sociali è ovvio, ci mancherebbe: l’economia è un’attività sociale, lo sapevamo già. Certo, un mercato, è vero, un mercato. Che, ci si racconta, valeva 28 miliardi di euro il 24 settembre, e ne vale 300 all’inizio di febbraio 2017. Altro che sol dell’avvenire! Ecco da dove verrà l’uscita dalla stagnazione!