Martin Wolf, chief economics commentator del Financial Times, titola il suo ultimo articolo The case against the collapse of capitalism, facendo riferimento a un libro la cui analisi (che porta alla tesi della ‘fine del capitalismo”) è da lui definita “esagerata e semplicistica”. Io non ho letto il libro né, vista la recensione negativissima di Wolf, intendo leggerlo. Ma per mie vie, e per via di altre letture, sono vicino alla tesi di Wolf: piano, con la tesi del crollo del capitalismo.
Piano, a prevedere il crollo del capitalismo. Già un secolo fa se ne parlava, ovviamente in tedesco, la lingua dell’economia politica di quel tempo: era la zusammenbruchstheorie di Rosa Luxemburg e degli spartachisti. Ma invece del crollo del capitalismo arrivarono fascismo e nazismo, cioè la negazione di quella democrazia che, si credeva, fosse condizione essenziale per il prosperare del capitalismo. E invece il capitalismo prese forza da fascismo e nazismo, proprio come in quegli stessi anni la prendeva dalla democrazia negli Stati Uniti. Un modo di produrre reddito, il capitalismo, che si è mostrato resiliente davanti a trasformazioni catastrofiche dei regimi politici, ai quali è sopravvissuto egregiamente.
Abbandonata la teoria del crollo, il dibattito sulle trasformazioni del capitalismo, e sulle modalità della sua fine, hanno comunque permeato quasi tutto il XX secolo, quanto meno fino alla caduta dell’Unione Sovietica. Tante le ipotesi sul tappeto, ovviamente: il capitalismo sarebbe finito per mano della rivoluzione socialista; oppure per incapacità a generare domanda aggregata sufficiente a produrre condizioni di vita accettabili; il capitalismo non sarebbe mai tramontato, ma si sarebbe lentamente trasformato in un’economia sociale di mercato; e avanti così. Incredibilmente, mai si sentiva parlare di quelle trasformazioni che oggi cominciano a occupare la nostra attenzione ma sulla cui rilevanza non stiamo riflettendo in alcun modo strutturato e fruttuoso: mi riferisco essenzialmente a quel coacervo di iniziative chiamato sharing economy, circular economy, economia della condivisione, eccetera.
Se ‘annuso l’aria’, cioè sfoglio libri e ascolto parlare quelli che di queste cose ‘ne capiscono’, colgo un tono di forte compiacimento per la diffusione di quelle che vengono definite appunto ‘pratiche di condivisione’. Questo mi sembra particolarmente vero del mondo cattolico e di una parte della sinistra, la quale vede queste pratiche come momenti di inclusione importanti nel processo produttivo complessivo, momenti invece assenti nel capitalismo ‘classico’. (L’altra parte della sinistra nega che siano momenti di inclusione e li interpretata invece secondo le categorie del marxismo classico, cioè come nuove forme di sfruttamento tout court). Secondo quella interpretazione, sembra di poter dire, tali pratiche stanno introducendo elementi nuovi di ‘democratizzazione economica’ nel capitalismo come lo conoscevamo, nel quale la ‘democratizzazione economica’ avveniva a opera del sindacato, organizzazione e rappresentanza degli interessi del lavoro. In altre parole, mentre nel capitalismo come lo abbiamo conosciuto la distribuzione del reddito non veniva (non viene) lasciata completamente in mano ai meccanismi di mercato, ma si consente alla parte debole nel processo di distribuzione di organizzarsi per la difesa dei propri interessi (si, anche negli Stati uniti, anche e molto in Germania, con buona pace dei liberisti nostrani), il progressivo indebolirsi della struttura produttiva industriale dei paesi ad alto reddito pro capite fa restringere la base tradizionale del sindacato liberando forza lavoro già occupata o non esprimendo domanda per quella nuova.
E come, allora, si produce democrazia distributiva in questo nuovo contesto, se non lo si può più, o lo si può sempre meno, con la contrattazione aziendale? O, il che in questo contesto è la stessa cosa: dove trova il proprio reddito chi viveva, o vorrebbe vivere, di lavoro, se lo spazio storico della produzione capitalistica, la fabbrica (tayloristica), va scomparendo, e con lei va scomparendo la forma salariata del lavoro?
La risposta che la de-strutturazione del rapporto di lavoro dà a questo quesito è strabiliante: nel mercato. Un mercato come l’avevamo conosciuto solo agli albori del capitalismo o in certe modalità che chiamiamo ‘capitalismo da far west’. Solo che quello che vediamo nei paesi ad alto reddito pro capite non è ‘capitalismo da far west’ nel senso che esso genera oligarchie e plutocrazie al di sopra delle leggi. Si tratta piuttosto di un mercato in cui la condizione di lavoro salariato viene negata in via di principio, un mercato nel quale chi fa consegne a domicilio con la propria bicicletta viene definito imprenditore nascente, un mercato nel quale fa notizia il fatto che gli autisti cui si affida una grande società di NCC (Noleggio Con Conducente, perché di questo si tratta) come Uber vincano una causa avviata per il riconoscimento dei diritti tipici del lavoro dipendente quali assistenza sanitaria e previdenza.
Questo affidarsi al mercato è, ovviamente, una opportunità che ciascuno cercherà di sfruttare secondo la propria dotazione di beni mobili e immobili, di conoscenze, di competenze. Tutti diventano ‘imprenditori di se stessi’, secondo una formula che nega il concetto stesso di imprenditore: chi ha due case e ne affitti una a giornate o a settimane non è un imprenditore, così come non lo è chi la affitti per anni alla volta; chi fa consegne di cibo a domicilio non è più imprenditore di un fattorino dipendente di un supermercato o di una impresa di consegne a domicilio solo perché usa la propria bicicletta; chi fa ‘coworking’ non è più imprenditore di me che sto scrivendo da casa mia.
In sostanza? In sostanza temo che ciò cui stiamo assistendo non sia la fine del capitalismo cattivo e l’inizio di quello buono. Ai cattolici e alla parte della sinistra entusiasti dico che questo non è un capitalismo inclusivo, e pertanto buono, a differenza di quello cattivo fondato sulla fabbrica tayloristica. E alla sinistra ‘dura’ dico che non si tratta di una regressione verso forme di sfruttamento primordiali, di un ritorno al capitalismo cattivo dopo aver vissuto alcuni decenni di quello ‘buono’. A tutti dico che questo ‘capitalismo molecolare’ è il modo in cui il capitalismo reagisce alla crisi della produzione e alla stagnazione secolare le cui radici sono emerse, secondo l’analisi mirabile di Robert J. Gordon, già dall’inizio degli anni ’80 del XX secolo. Con ciò snaturandosi in parte, il capitalismo, in quanto diventa sempre più modo di distribuzione della ricchezza e sempre meno modo di produzione della stessa. E nella misura in cui questo avviene, la palla passa ancora una volta al sindacato e alla rappresentanza dei diritti di chi lavora. Si, proprio come un secolo fa. Su un terreno completamente nuovo.