Gli Stati Uniti sono l’ambiente più favorevole al mondo per fare impresa. Ma questo non significa che non ci sia anche molto compiacimento…e che non ci siano molte cose che non vanno. La diagnosi si può leggere nel report Ernst&Young sulle economie dei Paesi del G20, di cui pubblichiamo il focus Italia ed Europa. La radiografia è un utile rimedio omeopatico per ridurre la febbre americana che attraversa il mondo delle start up e dell’innovazione.: America è bello per definizione, lì tutto funziona e tutti sembrano non pensare ad altro che a sostenere i nuovi imprenditori. C’è ancora chi crede che basta avere una buona idea e lì ti annaffiano di capitali, che tutto sommato Zuckerberg ha avuto solo la fortuna di nascere nel posto giusto e che non ci sia miglior destino che farsi comprare da un ricco fondo o, ancora meglio, da una multinazionale digitale.
Certo la potenza americana è indubbia. Il report Ernst&Young ci ricorda i punti di forza: una cultura imprenditoriale diffusa, con il faro della Silicon Valley; un robusto mercato dei capitali; una leadership nell’innovazione, contesa solo da Giappone e la capacità di trasformarla in prodotti; un concreto e robusto supporto da parte del Governo. Ma ci sono anche significativi elementi di debolezza: l’aliquota sulle imprese più alta fra i Paesi del G20; il sentiment delle comunità di supporto all’imprenditoria, che pure sono numerose, è in calo; la percentuale di start up è in calo ed è tornata ai livelli precedenti il 2011; la formazione scientifica è debole e l’accesso alle università particolarmente costoso; i tagli governativi fanno temere riduzioni negli investimenti in ricerca e sviluppo.
La terra promessa non esiste, se non nella Genesi, tantomeno per il business. Esistono semmai Paesi e mercati che in determinati momenti sono più favorevoli di altri anche perché hanno investito, e non solo soldi, nella creazione di un sistema efficace di regole e di incentivi. Un rischio e un pericolo: perdere la fiducia nel Paese, passo sbagliato anche quando ce ne sarebbero le motivazioni, e soprattutto precipitare in una stato di minorità rispetto al Grande Impero. A sentire alcuni discorsi e a vedere altri comportamenti sembra quasi di tornare indietro di qualche decennio quando ci siamo ubriacati del mito americano, fatto di rock, Greyhounds e Route66, favorendo di fatto innumerevoli forme di imperialismo culturale e creando le premesse per dissennate forme di antimperialismo. Adesso il pendolo torna verso la sudditanza psicologica e culturale, con il rischio di alimentare un nuovo mito americano che può dare tante soddisfazione, ma certamente produrrà altrettante illusioni e delusioni.