Scenari economici

Il trionfo della gig economy è il segno del fallimento dell’impresa

Le imprese prosperano quando l’imprenditore trova il modo di produrre in maniera più efficiente entro un’impresa di quanto non sia farlo sul libero mercato. Quando un’economia viene colpita dalla crisi i ‘vecchi’ imprenditori si rivelano inadeguati a battere il mercato. E l'”economia dei lavoretti” trionfa

Pubblicato il 06 Mag 2016

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Da qualche mese vengo rimasticando pensate su temi non proprio al centro del mio interesse scientifico, pensate su cosa sia la sharing economy, che cosa sia la gig economy, et similia. In chiusura all’ultimo mio posto di questa serie ponevo il problema della forma di impresa che si accompagna ad una economia ‘gig’. E scomodavo addirittura Coase, 1937. È ora di sviluppare un poco il ragionamento.

Tra le espressioni insulse che più mi infastidiscono, insieme a ‘piccolo è bello’ e ‘le imprese del territorio’ c’è ‘fare impresa’. La usano in tanti, questa espressione, in particolare quelli che, incapaci di ‘fare impresa’, dicono che in questo Paese è ‘impossibile fare impresa’ perché il governo…, o perché il sindacato…, o ancora perchè i giovani…, perché la camorra… Senza mai chiedersi cosa vogliano dire, quando usano l’espressione. Meno male che lo so io: vogliono dire che il mondo complotta contro di loro, e che se anche gli altri (!) lavorassero bene come loro stessi…..

Fare impresa, ci dice Coase 1937 (e premio Nobel per l’economia 1991), equivale a trovare alternative al funzionamento del mercato. Queste alternative le chiamiamo impresa. Un esempio può aiutare. Anni fa, in occasione della riunione dei membri dell’associazione europea degli economisti industriali, nell’andare dall’albergo al luogo della conferenza, passai con un collega in una piazza in cui decine di braccianti sedevano sui muretti in attesa che gli agricoltori venissero a selezionarli per la giornata. Il mio collega mi chiese scandalizzato perché questi disgraziati se ne stessero lì seduti a far niente invece di andare a cercarsi un lavoro. Un poveraccio, il collega, grande credente nelle virtù taumaturgiche del mercato, il quale però non riconobbe un mercato quando ne vide finalmente uno.

Entra Coase. Il quale si chiese come mai il mondo non funzioni come sostengono i fautori del libero mercato, cioè non funzioni come quel ‘mercato del lavoro’ che io vidi in quell’occasione, nel quale domanda e offerta di lavoro si incontrano ogni giorno, e ogni giorno ricontrattano daccapo prezzo e condizioni dello scambio. Perché, in altre parole, esistono le imprese? Perché esistono gli imprenditori, che organizzano e gestiscono la produzione e le risorse umane? Perché domanda e offerta di lavoro preferiscono stabilire tra loro un vincolo di natura contrattuale, il contratto di lavoro appunto, che elimina il rapporto di mercato per tutta la durata del contratto? Beh, le risposte possono essere tante. Ad esempio, è possibile che le condizioni particolari di una persona (una classe di persone) renda più appetibile una remunerazione contenuta ma certa, quella entro l’impresa, rispetto ad una più ricca ma più aleatoria, quella sul mercato (una volta l’esempio sarebbe stato quello del posto statale rispetto al posto nel settore privato).

Coase ipotizzò che la scelta tra relazione di mercato e relazione istituzionale dipende dal costo relativo delle due forme. ‘Fare impresa’ sarà conveniente se entro questa istituzione si riesce a dare vita a delle transazioni ad un costo inferiore a quello a cui sarebbe possibile farlo sul mercato. In questo caso diremo che l’impresa è una forma di organizzazione del lavoro e della produzione più efficiente del mercato. È imprenditore chi ‘fa impresa’, cioè chi batte il mercato.

Ora, è evidente che il mondo non sta fermo, cambiano la legislazione, i prezzi, le condizioni esterne all’impresa. Cioè, non esiste una ‘dimensione ottima d’impresa’ indipendente dalle condizioni esterne, le condizioni di mercato. Ne consegue che la realtà è in una sorta di ‘equilibrio mobile’, e che avremo ‘più impresa’ o ‘più mercato’ a seconda della direzione in cui i cambiamenti della legislazione, dei prezzi, dei valori spingono i costi di ‘assemblaggio’ delle transazioni all’interno dell’impresa e al suo esterno. È presumibile che nell’esempio dei braccianti di cui sopra un aumento del prezzo della benzina tenderebbe a scoraggiare la pratica del caporalato, poiché renderebbe relativamente più costoso il viaggio quotidiano al ‘mercato’ dove procacciarsi forza lavoro e, inversamente, renderebbe relativamente più conveniente l’istituzionalizzazione del rapporto di lavoro in forma di impresa. E allora, da dove viene la gig economy? Semplice: dai mille cambiamenti nelle condizioni che avevano reso conveniente la costituzione dell’impresa.

A me qui interessa mettere in evidenza il ruolo dell’imprenditore. Prendiamo ad esempio un’impresa ‘normale’ che abbia trovato il suo equilibrio tra attività da svolgere all’interno e attività che acquista sul mercato. E si supponga che questa impresa venga colpita da recessioni nel 2009, nel 2011, nel 2013-14 (indovinato di che paese sto parlando?). Bene, è legittimo pensare che di fronte a trasformazioni tanto violente e ripetute, l’imprenditore che aveva gestito il coordinamento della produzione con competenza e a costi ‘normali’ si trovi ora in difficoltà crescenti, e che non riesca più a garantire l’ordinato funzionamento delle attività come faceva in passato: organizzare la produzione entro l’impresa richiede maggiore sforzo, gli è divenuto più faticoso, più costoso. Ed ecco allora che diviene progressivamente conveniente ‘esternalizzare’ segmenti di processo produttivo, affidare la produzione di quei segmenti al mercato.

Et voilà le gig. Si, perché affidarsi al mercato vuol dire essersi liberati del ‘lacci e lacciuoli’, vero? Quali, lacci e lacciuoli? Ma quelli imposti dall’essere impresa, perbacco, non dal governo o dal sindacato o dalla malavita organizzata!

Debbo essere più esplicito? L’economia dei gig è la conseguenza delle capacità imprenditoriali decrescenti.

Ma ci debbo tornare sopra presto.

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