I miei amici e i miei studenti sanno che non leggo giornali italiani da dieci anni. Ma come, è la domanda meravigliata, e come fa a sapere le cose? E io: quali cose? Quelle che contano? Beh quelle le sento sui mezzi pubblici, qualcuno ogni tanto me ne segnala una, sono presenti sulla stampa estera, ci sono le fonti originali quali la BCE, il Ministero del tesoro, l’Istat.
Ecco, l’Istat (www.istat.it), che mercoledì 3 giugno ha pubblicato le statistiche del lavoro nella forma di dati provvisori per il mese di aprile e per il primo trimestre 2015. Dati importanti, che aiutano a dare una misura dell’andamento dell’economia nazionale che, come forse alcuni ricordano, non è fatta solo di tassi di interesse e spread e Quantitative Easing, ma anche di gente che lavora. E allora leggiamo che nel mese di aprile il numero degli occupati è aumentato di 159 mila unità rispetto al mese precedente; che il numero di persone inattive è diminuito di 104 mila; e che ci sono 40mila persone disoccupate in meno.
Dice un’espressione americana: nothing to write home about. No, niente per il quale valga la pena di prendere carta e penna e scrivere ai genitori e ai parenti. Niente che autorizzi a buffonate del tipo ‘ecco la luce in fondo al tunnel’, allucinazione su cui ha perso la propria reputazione più di un ministro. Ma qualcosa di importante comunque. Dopo sette anni di sofferenza crescente, dopo tre recessioni in cinque anni, dopo notizie e accadimenti penosi per chi lavora (e chi vorrebbe lavorare), questi piccoli segnali sono importanti. Perché sono il segno che la domanda di beni e servizi sembra stia tornando a muoversi, e che le imprese stiano pian piano tornando a sentire la pressione della domanda attraverso il portafoglio ordini. Aspettiamo dunque che Istat ci dia le prossime statistiche sugli ordini industriali, appunto, sperando che ci confortino in questa nostra sensazione.
Tutto ciò detto, e sempre allo scopo di non farsi abbagliare e tenere le cose nella giusta prospettiva, proprio ieri l’Ocse, l’associazione dei paesi più ricchi al mondo e per i quali raccoglie statistiche importanti, ha pubblicato le proprie previsioni del tasso di crescita del prodotto interno lordo per ciascuno dei propri associati. Eccoli qui sotto.
Si, lo so, il Pil non misura la ricchezza né la qualità della vita, ma questi sono i numeri che ho e di questi mi servo. E poi sono previsioni, so anche questo. Ma sono numeri che aiutano a mettere in prospettiva i numeri sull’occupazione nel nostro paese. I dati Istat sembrano mostrare un paese che pian piano si sta riprendendo; le comparazioni internazionali mostrano che siamo in una situazione davvero molto pesante. Peggio di noi, come si vede, solo Finlandia e Grecia: la Finlandia l’ha cercata con tutte le forze, essa campione dell’austerità che uccide la crescita e il benessere; e la Grecia l’hanno ridotta così gli austeri, anche se proprio in questi giorni danno l’impressione di affannarsi pieni di buona volontà per disfare la tragedia che hanno voluto. Ma noi? Non si sostenga che lo abbiamo voluto, io non lo faccio e se non lo faccio io….. Ma è chiaro che c’è qualcosa che non va nelle nostre imprese, è chiaro che manca la capacità di reagire che evidentemente esiste altrove, a guardare queste comparazioni. Dice qualcuno: ci vogliono le riforme strutturali. Basta, non ne posso più di frottole, sono quarant’anni che in questo nostro paese si ripete la stessa solfa. Ci servono imprenditorialità, innovazione, produttività, voglia di fare meglio e di più, di misurarci sull’arena della concorrenza internazionale.
Le riforme strutturali le faccia chi le dovrebbe fare (ma non le vuol fare). Noi lavoriamo alla ricostruzione.
* Fabio Sdogati è docente di Economia Politica al Politecnico di Milano